I 90 anni di Arrigo Cipriani: «L'Harry's Bar, la mia vita e la risposta di mio padre dopo il 19 preso all'esame di giurisprudenza»

Sabato 23 Aprile 2022 di Arrigo Cipriani
Arrigo Cipriani
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Nato il 23 aprile 1932, Arrigo Cipriani, è il patron del leggendario Harry’s Bar di Venezia, fondato nel 1931 dal padre Giuseppe in calle Vallaresso, nel centro storico lagunare, e dichiarato nel 2001 patrimonio nazionale dal Ministero dei Beni culturali. Cipriani che di sé ha sempre detto «Sono l’unico uomo al mondo che si chiama come un bar e non viceversa», è considerato il più famoso ristoratore italiano. Padre di tre figli (Carmela, Giuseppe e Giovanna), nonno di 7 nipoti a cui recentemente si è aggiunto il piccolo Facundo, ha al suo attivo anche la pubblicazione di una dozzina di libri, quasi mai di argomento gastronomico, tradotti in molte lingue. È anche cintura nera e terzo Dan di karate ed è un appassionato di auto veloci: attualmente guida una potente Mercedes Amx da oltre 500 cavalli.

Arrigo Cipriani, la vita e i ricordi

Negli ultimi mesi devo aver perso la memoria perché non ricordo niente del giorno della mia nascita. Mi hanno detto che è successo a Verona il 23 aprile 1932.

Mi sembra ieri! La data è sicura perché l'atto è al municipio di Verona. Mia madre era andata a trovare i suoi. Così il parto era avvenuto nella casa di mio nonno. Era una delle case dei ferrovieri subito fuori porta Vescovo. Mio nonno materno era ferroviere socialista. Mio padre quel giorno non c'era perché da un anno aveva aperto un bar in Calle Vallaresso a Venezia e lavorava dalla mattina alla sera. Non so quanti giorni rimasi lì. Di sicuro forse solo il tempo necessario perché decidessero di chiamarmi Arrigo. Che in inglese si dice Harry, che era il nome del bar aperto da mio padre. Infatti, non c'era nessuno tra i nonni o gli zii che avesse quel nome. Per anni non ci avevo mai pensato fino al giorno del mio primo esame all'Università.

Giusisprudenza e quell'unico esame dato


A 18 anni volevo fare il corridore di automobile, ma naturalmente in famiglia non se ne parlava nemmeno. Così decisero di iscrivermi a Giurisprudenza. Perché ti apre la mente aveva detto mio padre. A me sembrava quasi che parlasse di una trapanazione del cranio che mi avrebbe messo in condizione di capire qualsiasi cosa. Così feci il primo esame a Padova alle due del pomeriggio e il professor Trabucchi mi diede 19. Che ho sempre pensato che sia il voto che si dà a quelli che hanno studiato, ma non hanno capito niente. Il mio caso. Telefonai a mio padre verso le tre, gli comunicai il modesto risultato e, dopo una breve pausa di silenzio, mi disse: È meglio che vieni alla cassa stasera, non sarai mai un grande avvocato! Oltre che il corridore, a me sarebbe piaciuto dedicarmi allo sport, ma fin dalla primissima infanzia ero stato tormentato da una lunga serie di malanni che avrebbero sconsigliato l'impresa. Ero gracile, magro e pallido a tal punto che spesso, pur non sentendomi tanto male, i maestri mi rimandavano a casa prima del termine delle lezioni nel timore che in classe ci rimettessi improvvisamente la pelle. Alla cassa almeno sarei rimasto seduto senza affaticarmi troppo. Però cominciai a pensare che il mio nome facesse parte di una congiura famigliare per non darmi possibilità di uscita.

 

La gavetta di Arrigo Cipriani


La cassa era a fianco del banco del bar. Davanti al registratore NCR ho imparato tutto quello che di questo magnifico mestiere c'è da imparare. Ho avuto il privilegio di poter stare vicino a un Uomo, e vederlo lavorare leggero mentre col suo sorriso teneva in mano l'obelisco di ghiaccio per fare le bibite ai clienti. Un Uomo. Il più grande e vero che io abbia conosciuto: Mio Padre. Da alcuni anni ce n'è un altro che gli assomiglia in giro per noi nel mondo. Non è un caso che abbiano tutti e due lo stesso nome: Giuseppe, mio figlio.

I lavoretti in Inghilterra

Non era la prima volta che mi succedeva di svolgere un'attività di lavoro perché, da quando avevo 15 anni, durante le vacanze, ero già stato piazzato in Inghilterra nei posti più vari da mio padre che, ogni volta che incontrava un inglese, non perdeva l'occasione di chiedergli se per caso non avesse un posto per farmi lavorare: che si trattasse di una fattoria o di un ufficio di contabilità, pur di farmi imparare la lingua. La paga era un letto per dormire e il cibo che poteva variare da un appetitoso coniglio bollito freddo a un delizioso pezzo di montone bollito gelato dal frigorifero. In alcuni uffici contabili della City di Londra ero molto apprezzato perché ero l'unico che sapeva maneggiare una complicata macchinetta a piccole leve e manovelle che serviva a moltiplicare un numero di 19 cifre per un altro numero a 19 cifre. Era stata creata prima che gli inglesi scoprissero l'esistenza del sistema metrico decimale.
Comunque, il mio inglese progrediva ogni estate arricchendosi dei diversi dialetti, da quello di Londra a quelli del sud ovest d'Inghilterra.


Tra i miei precari insegnanti ricordo due amabilissime vecchiette che assomigliavano alle protagoniste del film "Arsenico e vecchi merletti". Una brillante commedia dove due anziane sorelle, se scoprivano che il loro inquilino era per qualche ragione infelice, lo guarivano uccidendolo con l'arsenico e lo seppellivano in giardino con l'aiuto di un nipote completamente fuori di senno. Così se per caso le due sorelle mi chiedevano come mi sentivo, rispondevo in fretta benissimo per evitare ogni possibile cura.


Quel 25 aprile e l'arrivo delle truppe neozelandesi

A 25 anni cominciai ad occupare la cassa del bar a tempo pieno facendo qualche incursione in sala per farmi vedere dai clienti. Mio padre era occupato nella costruzione dell'Hotel Cipriani alla Giudecca e perciò spesso non c'era. Durante i miei giri tra i clienti l'attenzione più lusinghiera che ottenevo era la domanda: Dov'è suo padre? Non viene più? Ero comunque timido, ma allegro di fondo. Continuavo a festeggiare dentro di me il giorno della liberazione, quando, a 13 anni, avevo visto arrivare in Canal Grande gli anfibi delle truppe neozelandesi di liberazione. Se cerco anche oggi di frugare tra i miei ricordi più fantastici, vien sempre fuori il 25 aprile 1945 quando alle tre del pomeriggio ci fu l'esplosione della libertà. Più detonante della guerra, più conturbante dell'amore. In mezzora la città fu invasa dalla follia della gioia. Ecco questo momento non lo dimenticherò mai perché cambiò la mia vita per sempre. Spesso mi chiedo se i giovani sappiano veramente cosa sia la libertà. Non credo ne abbiano la piena consapevolezza se non hanno provato l'incubo dell'invasione fatta da una dittatura. Le televisioni che mostrano in questi giorni le terribili immagini di questa guerra non riescono a trasmettere tutta la verità. In mezzo alle scene di guerra si vedono passare automobili, le luci delle città sono accese. Come ce la fanno vedere in video non è la guerra. Quella vera. Quella che ho visto e vissuto io da bambino. Quando andavamo in barca a remi con mio padre e ho visto, io, morto dalla paura, saltare in aria tutti i depositi di carburante di Marghera, scoppiare Ca' Giustinian nel luglio del 1944 per una bomba partigiana, mitragliare un vaporetto pieno di gente. E soprattutto non poter parlare e quasi neanche pensare. E mio padre era senza lavoro perché il bar era stato sequestrato dalle truppe fasciste. La liberazione fu un evento stupefacente. Il mondo attorno a me cambiò in un istante. Per giorni Venezia fu invasa da una gioia collettiva istantanea, contagiosa e sconvolgente. Non cambiò solo l'Italia, ma il mondo intero che era stato fatto prigioniero e vittima di un mostro dissennato. Anche oggi c'è un demente di fronte al quale l'Europa sembra impotente al di là delle sanzioni che non riusciranno a modificare il suo folle atteggiamento. Io credo che non ci sia invece altro mezzo per fargli cambiare idea se non quello di iniziare a tutti i costi un negoziato. Cominciare a frenare la guerra e ad eliminarla con la forza del ragionamento. Un pezzetto alla volta proprio come si sta sgretolando l'Ucraina. Il pazzo è troppo forte per non perdere. Bisognerà lasciarlo vincere o fargli credere che ha vinto. Allora verrà la pace. Che non cambierà nulla come non cambiano nulla le guerre. Ma occorrerebbe una Europa diretta da menti forti che sembrano assenti. Anzi, vittime di una ideologia che impera da più di 20 anni, sono assenti. Mi perdonerà la Signora Ursula Von der Leyen, che comunque non leggerà mai questa lettera, ma non gioverà certo alla fine della guerra la sua visita televisiva a Kiev dove, tenendo in bella vista sul petto il giubbotto antiproiettile, ha mimato utilmente sul viso una espressione stupita e dolorosamente partecipe. Per un tocco di pessimismo mancava solo Gretha Thunberg, la sua giovane consigliera climatica, di professione crumira scolastica.

La cucuna, la passione


Parlando di ristoranti sono convinto che le stelle della cucina si spegneranno lentamente perché l'unica cosa che ci tiene legati alla vita, al nostro mestiere, sta in come lo facciamo. È una cultura, la nostra, che non ammette forzature. Penso che l'innovazione debba sempre andare di pari passo con un occhio alla nostra storia che è una grossa parte di quella del mondo. Credo che innovazione voglia dire far bene la tradizione le cui vie sono infinite.
E soprattutto non bisogna pensare che i clienti siano degli alunni da sbalordire, ma al contrario da onorare e accogliere senza imposizioni, offrendo qualche cosa che loro già conoscono e che riconoscono in un sorriso, nel gusto, nella delicatezza e nella leggerezza.
Tutto qui.

Il non pensiero dei social

Sono sicuro che una iattura moderna sia la diffusione del non pensiero dei social.
Assieme ad amici abbiamo fatto un tentativo l'anno scorso per poter dire la nostra. Abbiamo acquistato un dominio. Non l'abbiamo pagato molto. Meno di due euro. Si chiama Fartbook.Eu. Per chi non lo sapesse fart in inglese vuol dire scoreggia. Come face vuol dire faccia. Fartbook potrebbe essere una ventata di profumo se paragonata al fetore che spesso esce da Facebook.

Harry's Bar

E poi c'è Venezia dove ho sempre vissuto e da dove è partita l'idea dei ristoranti nel mondo. Anche l'Harry's Bar compirà 90 anni. Più uno. Venezia, come la vedo io che ho avuto il privilegio di viverla da bambino, quando si giocava a tacco sui masegni lucidati per l'occasione, a massa e pindolo, a guardie e ladri o a campanon con le bambine. Venezia dove si viveva in strada come in casa perché i campi erano i nostri salotti, le calli i corridoi, i ponti erano le scale, da fare di corsa a quattro gradini alla volta. E alla fine si scopriva l'acqua dove si montava per la prima volta in barca e con i remi si andava per canali scoprendo che, vista dall'acqua, era una città che non assomigliava a quella di terra, ma la completava. Poi si cominciava per curiosità a guardare in su e a vedere, e forse per la prima volta a guardare, i palazzi che allora ci sembravano altissimi. E a renderci conto del lento e lungo respiro della marea che cambiava di direzione ogni sei ore, e a nuotare tutti assieme nel canale sotto casa o a sguazzare felici coi piedi nell'acqua alta, quando arrivava. Anche allora. E, inconsapevoli, scoprivamo che c'era qualche cosa che non aveva forma perché era invisibile nell'aria e nelle cose e che adesso so che si chiama anima. L'anima di quegli uomini che avevano posato la prima pietra per costruire un palazzo, coscienti che non lo avrebbero visto finito e che perciò in quella pietra avevano messo un pezzo della loro anima. Una città fatta senza preventivi, ma con la volontà di farla, con la voglia di farla. Senza l'aiuto di urbanisti perché le case le costruivano seguendo le curve dei canali e per ciò stesso è l'unica città al mondo fatta alla vera misura dell'uomo che si incontra nudo con l'altro uomo nudo, a viso aperto, senza la gabbia dell'automobile. L'Harry's Bar è una Stanza. Quattro metri e mezzo per nove. Alta due e mezzo. Nel 2001 ha avuto l'onore di essere notificata dal ministero dei beni Ambientali come bene protetto, per la sua testimonianza del Ventesimo secolo a Venezia. Attaccata alla stanza c'è la cucina dalla quale esce un rumore che è un misto di comande gridate ai cuochi e uno sbattere di pentole che fa da sottofondo al brusio principale dei clienti: discorsi, risate, commenti. Perché chi è seduto lì dentro partecipa anche alla vita che si svolge tutto intorno.
La stanza è un'orchestra nella quale nessun orchestrale è però protagonista. Ma di una cosa sono certo. I milioni di pensieri di questi 90 anni, i miei e quelli degli altri, rimarranno lì per sempre sotto forma di una lievissima corrente d'aria che si insinuerà tra la tappezzeria e i mattoni invisibili dei muri. Tutti in buona compagnia. Tra qualche anno mi dispiacerà un poco non esserci. Sarà il prezzo da pagare per la libertà.


Ringrazio il Gazzettino con il Suo Direttore Roberto Papetti per avermi chiesto di scrivere un pezzo sui ricordi dei miei 90 anni. Nel 1980 un direttore del giornale che si chiamava Gianni Crovato mi invitò a scrivere il mio primo pezzo. Lo scrissi sulla morte di mio padre. Gli piacque e da allora sono orgoglioso di averne scritto per il Gazzettino tantissimi altri.
Ringrazio tutti quelli che mi hanno fatto gli auguri. Ho paura che sarà meglio si preparino a farmeli ancora per almeno altri 10 anni.

Ultimo aggiornamento: 16:44 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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