Il dottor Rigoli in corsia fino a 70 anni: «Il Covid e il karate mi hanno insegnato a non mollare mai»

Venerdì 8 Marzo 2024 di Mauro Favaro
Il dottor Roberto Rigoli

TREVISO - Roberto Rigoli non si ferma: la pensione può aspettare. Il direttore sociosanitario dell'Usl della Marca, storico primario della microbiologia dell'ospedale di Treviso, coordinatore di tutti i laboratori del Veneto nel pieno dell'emergenza Covid, a fine marzo compirà 67 anni. E proprio in vista di questo ha deciso di rinviare la pensione di tre anni. La decisione adesso è ufficiale: continuerà a lavorare per l'azienda sanitaria trevigiana fino al 30 marzo del 2027, quando arriverà a spegnere 70 candeline. Dopo la conferma per altri due anni, il direttore generale Francesco Benazzi nei prossimi giorni gli ribadirà formalmente l'incarico di direttore sociosanitario dell'Usl.

Dottor Rigoli, da dove nasce la scelta di continuare anche dopo tutte le fatiche fatte nel corso dell'emergenza coronavirus?
«Ho accolto una richiesta arrivata dalla direzione generale.

Il periodo del Covid mi ha allenato. Nella mia vita sono stato abituato a essere sempre allenato nell'ambito dello sport. Ho praticato karate per cinquant'anni. E questo mi ha abituato ad affrontare le cose in maniera serena, pacata, equilibrata e sempre con rispetto verso tutti, compresi gli avversari».

Un riferimento, quest'ultimo, anche alla battaglia legale sulla vicenda dei tamponi rapidi?
«Diciamo che, come lo sport, anche il periodo Covid mi ha allenato ad affrontare difficoltà enormi, senza soste e senza orari. E parallelamente mi ha allenato pure ad affrontare temi impegnativi in termini di giustizia».

Quali obiettivi si pone da qui al 2027?
«Attuare un nuovo approccio a livello di organizzazione dei servizi. La sfida da un lato sarà la transizione dalla parte sociale agli ambiti territoriali sociali (Ats, gestiti con la collaborazione dei Comuni, ndr), ma anche e soprattutto lo sviluppo della questione della sanità pubblica nel territorio. È una cosa a cui credo profondamente».

Lei è stato a lungo primario in ospedale.
«Ho lavorato per 35 anni in ospedale. Ed è proprio questo che mi ha portato a condividere con i miei colleghi primari il fatto che si debba rafforzare la sanità a livello territoriale per creare un vero ponte con l'ospedale».

Come si può fare?
«L'obiettivo è avviare e rafforzare le attività specialistiche nel territorio. In totale collaborazione con l'ospedale, cioè concordando la programmazione con i responsabili dei reparti. Se si attivano degli ambulatori cardiologici, ad esempio, è necessario studiare e costruire il processo con i primari delle unità di cardiologia. E questo vale anche per tutto il resto».

Ci si scontra però con l'attuale carenza di specialisti e di medici di famiglia.
«Siamo consapevoli che il tema è la scarsità di medici, sia specialisti che medici di medicina generale. Entrambi in questo periodo hanno affrontato la pandemia dando l'anima, chi sul fronte ospedaliero e chi su quello degli ambulatori territoriali. Insieme hanno dato moltissimo. I medici di medicina generale hanno sforato il tetto dei 1.500 assistiti. Oggi hanno un numero di pazienti molto elevato. Hanno fatto fatiche notevoli. Adesso si è arrivati al punto della riorganizzazione. Bisogna sedersi attorno a un tavolo e ricostruire i percorsi, tutti assieme».
 

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