Il regista Michieletto: «Quella volta che Red Canzian mi premiò al concorso di Treviso»

Venerdì 31 Dicembre 2021 di Chiara Pavan
Damiano Michieletto ha diretto il "Gianni Schicchi"

Con il suo “Gianni Schicchi” ha conquistato non soltanto il Torino Film Festival, ma anche il pubblico di Rai1 e di Rai3, che in questi giorni di feste si sono gustati il frizzante film-opera di Puccini e lo spettacolare “Rigoletto al Circo Massimo”, primo lavoro messo in scena nel luglio del 2020 dopo i lunghi mesi di chiusura legati alla pandemia. Damiamo Michieletto chiude il 2021 in bellezza.

Il regista veneziano, ma ormai di casa a Treviso e che i sovrintendenti di tutto il mondo corteggiano come spasimanti a caccia di nuovi sguardi sull’opera, ha sempre voglia di cambiare: allestimenti arditi, personaggi della lirici simili a noi, film-opera, curiosi percorsi artistici in arrivo per il Carnevale 2022, e anche il cinema che lo cerca. «Per me è sempre importante non ripetermi, non accontentarmi di ciò che ho imparato.

Amo mescolare le carte, vedere cosa nasce».

Damiano, che anno è stato il 2021?

«Bello, la pandemia mi ha dato la possibilità di provarmi su cose diverse rispetto al passato, e questo per me è stato positivo». Con ben due film, per di più. «Il “Rigoletto al Circo Massimo” era nato proprio per la pandemia, mentre “Gianni Schicchi” era un progetto che sognavo da tempo. Per me anno è stato un anno ricco di creatività, sin dalla fine del 2020, con gli “Atti Unici” di Čechov per lo Stabile del Veneto. Ma di là del lavoro e del teatro, penso sia stato un anno particolare: viaggiando molto all’estero, sono molto orgoglioso di come mio paese ha gestito l’emergenza, mi sembra che siamo stati bravi complessivamente».

Per il 2022 cosa l’aspetta?

«Sono pieno di impegni. Dopo “Gianni Schicchi”, ci sono progetti cinematografici all’orizzonte». Cioè? Un altro film-opera? «No, un film “normale”. Vediamo se riuscirà ad andare in porto. E poi ci sono le opere. Devo ricominciare a girare, Berlino, Parigi, Venezia, Roma, Mosca». Ma come fa? «(risata) Un po’ alla volta.... non tutto insieme. A Berlino farò “Orfeo e Euridice, alla Fenice un’opera nuova basata sulle “Baruffe chiozzotte”, con musiche contemporanee di Battistelli, poi a Parigi “Giulio Cesare in Egitto” di Haendel, quindi a Roma una cosa pazza di Bernstein, la “Messa”. E infine a Mosca “L’angelo di fuoco” di Prokofiev».

“Gianni Schicchi” è un stato un bel lavoro di squadra.

«È un’opera che vive grazie al gruppo, non c’è un solo protagonista. È stato uno dei motivi per cui l’ho scelta. È stato un ... casin, ma molto divertente». Ma ci sarà una proiezione trevigiana? Magari all’Edera? «Mi piacerebbe, ce n’era una in programma il 23 dicembre che poi è saltata. Forse a gennaio, non so. Il film ora è di proprietà Rai, per cui lo si può proiettare al cinema, ma ci sono di mezzo dei passaggi burocratici. Sarebbe bello, è un bel cinema, ci vado spesso quando posso».

Quando inizia una regia, da dova parte?

«Sembra banale, ma parto sempre dalla storia. La leggi, ascolti la musica e cerchi di immaginare il mondo che potrebbe nascere. Uno spazio, fondamentale nell’opera, che possa portare la storia su un livello non convenzionale, non prevedibile, ma che risulti chiaro e immediato al pubblico».

Lei ormai vive a Treviso da anni. Come la vive?

«A piedi. Nel senso che abitando sulle Mura raggiungo tutti i posti a piedi: mi piace, per me rappresenta una città a misura d’uomo».

Da Scorzè dove è nato a Milano, alla Paolo Grassi: cosa l’ha spinta?

«Avevo 20 anni, ma all’epoca non avevo chiaro quello che avrei fatto. Ma semplicemente cercavo più stimoli. Nascendo in provincia avevo bisogno di altro. E ho imparato che il teatro voleva dire tante cose, mi ha aperto lo sguardo».

Lei poi si è laureato.

«Sì, in lettere a Venezia, da non frequentante. Una promessa fatta a mia madre. Certo, sono stato anche molto fortunato, ho avuto delle opportunità e le ho fatte fruttare».

Non avesse fatto il regista?

«Cantautore, mi è sempre piaciuto scrivere canzoni, cantare. Penso che avrei potuto continuare. Ho persino vinto un concorso a Treviso».

Quando?

«Si chiamava “Ritmi globali europei”, credo fosse il 1998 o 1999. All’epoca mi aveva premiato Red Canzian insieme a Ivana Spagna. La mia canzone, “Nuvole”, era stata accolta nella sezione “cantautorato”, e il premio in palio era l’incisione del disco. Ricordo che Red Canzian mi si è avvicinato, mi ha fatto i complimenti e poi è arrivato il premio. Le canzoni sono una dimensione che mi appartiene molto, mi viene facile. Suono anche ai matrimoni degli amici. Ho persino scritto un brano sul covid, e ho cantato a Radio Deejay».

Una passione per il palcoscenico....

«Ma adoravo anche la figura del telecronista sportivo. Amavo il ciclismo, ero un agonista, anzi tutta la mia famiglia è di ciclisti. Mio padre a Scorzè ha fondato una squadra, è stato presidente della Federazione Ciclista del Veneto. Così ogni tanto ho fatto da speaker. Mi è sempre piaciuto intrattenere il pubblico, raccontare la cronaca della corsa. Prima o poi, magari, mi capiterà una giornata libera per trovare una gara ciclistica e improvvisarmi speaker».

Ma corre ancora?

«No. Mai avuto la passione del ciclismo amatoriale. Correvo per fare le gare, ero un agonista. E quando ho smesso con le gare, ho messo via la bici».

Per il prossimo Carnevale, con la Biennale e l’Asac, arriverà anche il suo nuovo progetto “Archèus”.

«Un progetto interessante, che ho realizzato con il mio team di lavoro Ophicina. È il primo progetto artistico, non teatrale o cinematografico, che verrà inaugurato a Forte Marghera, a Mestre, il 18 febbraio ai primi di giugno».

E cosa farà?

«Abbiamo provato a investire quanto imparato in questi 20 anni di opera e teatro, cominciando a sperimentare, a creare un linguaggio artistico diverso. Il progetto riguarda anche il Flauto Magico, ma è un viaggio “fisico” che il pubblico farà all’interno di un tunnel, dall’oscurità alla luce. Credo sia interessante per tutte le fasce d’età».

Cosa si augura per il teatro del 2022?

«Mi auguro che riesca a dialogare un po’ di più con il mondo digitale per fare in modo da creare canali di comunicazione intelligenti con le nuove generazioni, che vivono nel digitale. Non per svilire la sua natura teatrale, ma per comunicare in modo più proficuo e coinvolgente. Per trovare il modo di attirarli, di emozionarli, di catturare la loro attenzione».

Ultimo aggiornamento: 15:53 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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