Franco Perlasca ricorda il padre Giorgio: «Salvò cinquemila ebrei, ma non chiamatelo eroe: fu un vero Giusto»

Sabato 30 Marzo 2024 di Iris Rocca
Franco Perlasca con la fotografia del padre Giorgio

PADOVA - C’è stato un Franco Perlasca che non sapeva chi fosse stato davvero suo padre, Giorgio.

Poi un Franco Perlasca che lo venne a sapere e infine un Franco Perlasca che decise di andare a fondo alla storia e farla conoscere a tutti.

Franco, chi era Giorgio Perlasca?
«Fino al 1987 semplicemente mio padre. Abitava a Città Giardino con mia madre, mentre io 33enne e mia moglie di tanto in tanto passavamo a salutarli. Un giorno ricevemmo la visita di Eva e Pal Lang, apparentemente due sconosciuti di Budapest, che in realtà lo conoscevano meglio di noi e da cui scoprimmo quante vite avesse salvato in Ungheria attraverso le case protette, durante la Seconda guerra mondiale e il nazismo».

Lei come reagì?
«Entrai in crisi. Mi chiedevo se non capivo la lingua o se avessi vissuto con qualcuno di cui non sapevo nulla. Ma la storia era vera e nel 1989 fu invitato in Ungheria per il riconoscimento dal Parlamento unito. Incontrò persone che gli dovevano la vita e gli regalavano ricordi di famiglia affermando che se non fosse stato per lui non avrebbero avuto eredi».

Comprese anche lei chi era davvero?
«Aveva salvato più di cinquemila persone assegnando loro il salvacondotto. Eppure ero arrabbiato con lui, da figlio. Ero curioso ma feci l’indifferente, visto che non aveva voluto parlarmene. La sua storia faceva il giro del mondo e lui con essa: dagli Usa a Israele. Io lo seguivo solo quando incontrava persone con cui avevo un rapporto personale, come Enrico Deaglio e Giovanni Minoli che per primi lo hanno raccontato nel 1990 a “Mixer”.

Quando si interruppe il suo disagio?
«Un po’ alla volta, forse più di tutto dopo la sua morte nel 1992. Sono riuscito a riconciliarmi con la sua memoria e ad apprezzare i suoi silenzi conoscendo meglio la sua storia. Nel 1996 “Il Mulino” ci ha chiesto il suo diario del 1945 per scriverne un libro e fui incastrato nelle presentazioni: dall’Accademia d’Ungheria a Roma fino a Teolo, il primo comune che gli dedicò una piazza.

Qui una persona chiese di parlare. Chi era?
«Giorgio Pressburger, giornalista e direttore dell’Istituto di lingua italiana a Budapest. Raccontò di aver riconosciuto la sua casa e Giorgio Perlasca, che lo salvò da bambino, dalla puntata di “Mixer”. Un incontro che mi cambiò la vita. La storia era così bella: non avevo il diritto di buttarla e apprezzai persino il silenzio di mio padre. Avevo metabolizzato il lutto. Da lì conobbi centinaia di persone salvate da lui, alcune venivano persino a fare i fanghi ad Abano e ci cercavano».

Si è mai chiesto il perché di quel silenzio?
«Nella cultura ebraica si dice esistano sempre al mondo trentasei Giusti, che quando il male si manifesta si prendono il mondo sulle spalle e fan sì che Dio non lo distrugga. Una volta fatto il bene se ne dimenticano e tornano alla loro vita sapendo di avere fatto solo il loro dovere. Vale anche per persone non ebree che abbiano salvato almeno una vita mettendo a rischio la propria, senza nulla in cambio».

Un eroe dunque?
«L’eroe sta sopra la sua storia, mentre il Giusto è un eroe a tempo: fa ciò che deve in quel momento senza ottenere niente. E la storia non può essere raccontata dal diretto interessato, ma dai salvati o dai Giusti. Israele ne ha riconosciuti 27mila, di cui 700 italiani. Alcune storie sono uscite subito, alcune mai. Quella di Giorgio Perlasca dopo 45 anni. L’Ungheria è passata dal regime fascista a quello comunista. Quelle persone sono venute a cercarlo quando sono potute uscire dal Paese. E poi l’Italia accolse la sua storia con un atteggiamento distaccato, perché nessuno poteva metterci un cappello.

Non era politicamente interessante?
«No, perché mio padre pensava con la propria testa: non si è mai pentito di essere stato fascista né di aver partecipato alla guerra, ma, rientrato in Italia, mantenne il suo sentimento nazionalista e non apprezzò l’alleanza col nemico tedesco né le leggi razziali e la discriminazione tra concittadini. Aveva diversi amici ebrei e, pur senza diventare antifascista, ne morì l’entusiasmo e non aderì alla Repubblica di Salò. Eppure Deaglio e Minoli, politicamente lontani da lui, ne capirono il valore. Invece la prima onorificenza italiana, il titolo di Grande ufficiale della Repubblica, gli arrivò per posta, col bollettino da versare. Lo rimandò indietro. La seconda fu la Medaglia d’oro al valor civile, ma la notizia arrivò a Padova un mese dopo la morte di mio padre. A rendergli onore fu il film omonimo della Rai. Ci furono difficoltà politiche e un iter di nove anni. Ogni pagina del copione doveva essere firmata da me, aspetto non scontato visto il personaggio pubblico. Fu trasmesso il Giorno della memoria del 2002 e fu un grande successo.

Avrebbe emozionato anche suo padre?
«Forse la scena dei treni: quando andava a vederli partire dalla stazione di Budapest per Auschwitz e preparava i salvacondotti o tirava fuori bambini e anziani che lo colpivano. Se salvavi uno condannavi a morte gli altri e questo gli ha sempre fatto male: neanche in quel caso trovava giusto scegliere le persone».

Ultimo aggiornamento: 13:23 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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