Gioacchino Bragato, il cuoco-pittore che ha incantato il mondo con la sua tecnica naif: «Io, un artista ai fornelli, cucinavo per Dario Fo»

Storie e ricordi del pittore che fino al 1994 è stato il cuoco della Trattoria al Pero. Le sue opere hanno viaggiato in tutto il mondo

Giovedì 12 Ottobre 2023 di Maria Grazia Bocci
Gioacchino Bragato, il cuoco-pittore che ha incantato il mondo con la sua tecnica naif: «Io, un artista ai fornelli, cucinavo per Dario Fo»

PADOVA - Gioacchino Bragato non si è spostato spesso da Padova, la sua amatissima città. Ma la sua arte, poetica, lirica e spesso impegnata, è una vera giramondo. Olii, tempere, incisioni, disegni sono stati presentati in esposizioni in Italia e all’esterno. E poi la mail-art, che frequenta da decenni, le “cartoline” opere d’arte, rigorosamente spedite nella buca delle lettere («non uso Internet»), ha raggiunto ogni angolo del pianeta. Il cuoco-artista, oggi ottantatreenne, si vede quasi ogni giorno in centro con la sua inseparabile bicicletta. Da anni con i suoi dipinti augura buona Natale e buona Pasqua ai lettori del Gazzettino.

Lei è un artista naïf, anche se per parte della critica è una definizione riduttiva. Bragato cosa pensa di se stesso artista?
«Naïf è una definizione calzante, figuro anche nell’Enciclopedia mondiale del genere.

Sono un autodidatta, fin da giovane ho seguito solo il mio istinto, girando per le calli di Venezia mentre ero lavapiatti, a soli 13 anni, alla trattoria Ai Postai. Negli anni sono poi stato stimolato ad andare avanti da amici artisti, come Angelani, Viganò, Galuppo, Salmaso, e nomi noti della critica e del giornalismo, da Rizzi a Segato, da Pellegrini a Petternella e tanti altri. Ecco, alla definizione di naïf accosterei quella di simbolista: nelle mie opere metto quello che vedo con l’anima non con gli occhi».

Fino al 1994, quando è andato in pensione, lei ha lavorato come cuoco per quasi quarant’anni alla mitica trattoria “Al Pero” di via Santa Lucia. Come ha conciliato le sue due vite?
«Lavorando di giorno e dipingendo di notte. Ma tutto è stato possibile grazie alla mia straordinaria moglie Mafalda e alla sua infinita pazienza».

Alla trattoria “Al Pero”, crocevia di artisti, intellettuali, docenti universitari, personaggi del mondo dello spettacolo, lei ha consolidato la sua vocazione artistica, grazie agli incontri e alle amicizie. Ma che ricordi ha della sua attività di cuoco?
«Quando diciamo trattoria storica parliamo di un locale aperto nel 1804, prima del Pedrocchi. Per tanto tempo è stato un punto di riferimento. Io ero ai fornelli con Bruno Salvadego, proprietario con il fratello Luciano. Dario Fo veniva in cucina, gli piaceva succhiare gli ossi del bollito. Era una grande forchetta, mentre Giorgio Gaber diceva che mangiare era “una perdita di tempo”. Del Pero era un affezionato cliente anche Mike Bongiorno: lui adorava la cucina semplice, padovana, che io proponevo. Ma l’elenco è troppo lungo: ricordo solo il regista Glauco Pellegrini, Gino Bartali. E poi la schiera di artisti: da Tono Zancanaro a Carlo Cattaneo, a Giuliano Vittozzi».

Lì sono nate tante idee e iniziative che hanno fatto storia non solo in città.
«Una su tutte la famosa Mostra del Pane del padovano Gruppo N. Piero Manzoni era a tavola e disse agli artisti: “Io ho inventato la merda d’artista, fate qualcosa anche voi”. Così si ispirarono alle nostre rosette».

Nei suoi dipinti entra prepotentemente la natura, che spesso si fonde con monumenti, antiche chiese, casoni, simbologie e miti.
«Per me la natura è il massimo. Il sole è l’energia, la luna è la meditazione, l’acqua il canto. Il bosco è un’orchestra. Il mio soggetto preferito è l’albero, uno slancio verso l’alto ma con le radici ancorate nel profondo. Mi interessano anche l’uomo nel suo rapporto con l’ambiente e i temi sociali, dall’uguaglianza alla pace».

La sua vita e la sua opera sono impegnate infatti anche nel sociale. Spesso è intervenuto negli eventi della città.
«Nell’agosto 2006 ho dipinto dei fiori sul Muro di via Anelli: un invito ad abbattere le barriere. Nel 2013 ho partecipato provocatoriamente al bando di gestione del Caffè Pedrocchi, offrendomi per un euro al mese tanto lo stabilimento di Jappelli aveva toccato il fondo. Poi sono sempre andato alle biciclettate in ricordo dei partigiani, il 2 Giugno, perchè sono legato ai valori della mia patria. Ho anche raccolto le firme per chiamare “I Teatini” l’oggi San Gaetano, e 400 ne avevo tirate su, ben prima del Musme, per un museo della medicina. L’elenco potrebbe continuare».

Cosa pensa della città oggi?
«Non la riconosco più. Ci mancava il tram a devastarla. Non ci sono più osterie dove si scambiano idee, non ci sono più gallerie d’arte, non esistono più le mostre estemporanee o la celebre Biennale del Bronzetto. Il mondo è cambiato, e anche la mia città».

Nel marzo dello scorso anno la sua vita è stata spezzata da un gravissimo lutto, l’improvvisa morte a 51 anni di suo figlio Luca. Com’è riuscito ad affrontare il dolore?
«Luca era un figlio straordinario. Io e Mafalda non potremo mai accettare la sua perdita, un dolore troppo grande, una mazzata inattesa. Ho un altro figlio, Paolo, sua moglie e due splendidi nipoti, Riccardo e Beatrice, sono loro le mie risorse dell’oggi e del domani».

Lei ha realizzato molto. Ha ancora un sogno nel cassetto?
«Prima di morire vorrei vedere pubblicato un libro sul Pero. Ho disegni, scritti, testimonianze, locandine. É stato un pezzo importante della vita padovana, dovrebbe essere ricordato».

Ultimo aggiornamento: 13 Ottobre, 09:04 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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