Da garzone di bottega a re dei manifesti di Hollywood: «Disegno il cinema da quasi 70 anni»

Ha un sogno: «Sono l'unico in Europa ad avere una grande collezione di originali. Mi piacerebbe una mostra permanente a Treviso»

Lunedì 20 Febbraio 2023 di Edoardo Pittalis
Casaro con Carlo Verdone

L'INTERVISTA - Ricordate il manifesto del film "Balla coi lupi", quello con Kevin Costner che si dipinge il volto coi colori di guerra? Lo ha fatto lui. E quello con Trinità-Terence Hill che si fa trainare dal cavallo? Lo ha fatto lui. E Rambo che spara, Conan con lo spadone del vendicatore? Tutti opera dell'uomo che disegna i film, Renato Casaro, trevigiano, 88 anni, sposato con Gabriella, tre figli.

Il garzone di bottega della premiata Tipografia Zoppelli di Treviso ha fatto carriera.

Un anno fa la sua città gli ha dedicato una mostra antologica, i disegni ora sono esposti a Matera e presto andranno a Palermo; per celebrarlo stanno pensando a una grande rassegna a Hollywood. Se ci fosse un Oscar per i manifesti, Casaro lo avrebbe vinto. «I tedeschi mi hanno dato il loro Oscar per "Balla coi lupi". Il manifesto de "L'ultimo imperatore" è stato giudicato il più bello nel mondo da Hollywood Reporter. Quentin Tarantino per "C'era una volta a Hollywood" mi ha chiamato per disegnare le locandine degli western all'italiana girati dal personaggio interpretato da Di Caprio. Anche questo è un Oscar».

Confessa di avere un sogno: «Sono l'unico in Europa ad avere una grossa collezione di originali dei manifesti, a incominciare dai miei. Mi piacerebbe una mostra permanente a Treviso che è la sede ideale: Treviso col Museo Salce è la storia del manifesto». Casaro abita nella casa dove è nato, che era quella dei nonni. Allora era campagna aperta che si perdeva fino a un ponticello in legno sul Sile, e non aveva nome: oggi è via Cesare Pavese.

Cosa l'ha riportato a Treviso dopo molti anni?
«Le origini. Vengo da una famiglia di estrazione contadina da parte di mia madre Maria; mio padre Orfeo, figlio di una levatrice, era meccanico saldatore. Sono nato nella casa dove abito ancora, una volta qui era come una piccolissima valle che portava al Sile, quando nevicava andavamo a scivolare. Quando avevo due anni eravamo in Libia per il lavoro di mio padre. Siamo rientrati in Veneto con la guerra e stavamo in una casa vicino alla stazione, eravamo sfollati in campagna ed è stata la nostra fortuna: quella casa è stata distrutta dalle bombe. Al momento di scegliere che studi fare, mio padre che lavorava ai Cantieri navali di Porto Marghera sognava di portarmi con sé. Ero bravo nel disegno, alla scuola industriale non avevo concorrenza, il professore chiamò mio padre per dirgli che dovevo seguire la mia passione».

È allora che è nato l'illustratore di oggi?
«Sono entrato nello studio grafico della nota tipografia Zoppelli e lì ho incontrato un grande artista, Roberto Sgrilli, illustratore di Pinocchio e di tutte le favole. Vederlo lavorare è stata la mia scuola vera, facevamo etichette di vino, calendari, manifesti per il panettone di una ditta trevigiana, per la Gorena nota camiceria di Padova, per le stufe Travalin. Il cinema arriva quasi per caso: sulla strada per la tipografia c'era il cinema Garibaldi, ero innamorato dei manifesti, mi fermavo a studiarli. Una volta mi chiedono qualcosa per il lancio del film "Ulisse" con Kirk Douglas, realizzai delle sagome ad altezza naturale. Pagavano poco ma entravo al cinema gratis. Poi fu la volta di "Apache", western con Burt Lancaster. Il direttore del locale fece una serie di foto e le mandò alla Lux che aveva distribuito il film. Una sera sento alla radio l'intervista a Ercole Brini, quello della locandina di "Via col vento". Prenoto una chiamata dal telefono pubblico, mi invita ad andare a trovarlo a Roma. Parto col benestare dei genitori e le lacrime di mamma, ospite di uno zio. Viaggio in terza classe in treno, in piedi e con la cartella dei disegni».

Come è stato l'impatto con Roma?
«Siamo nel 1954, Brini viene a prendermi con una macchina bellissima e mi porta nel suo studio dove sta dipingendo il manifesto per un film sul Moulin Rouge e le ballerine di can-can. Vede la cartella e mi spedisce da Favalli, direttore artistico della Lux, il quale ha tra le mani un film con Totò, "Destinazione Piovarolo", mi consegna una serie di foto e mi mette subito alla prova. La mia idea piace e vengo assunto come ragazzo di bottega. A contatto con i più grandi di quell'arte ho imparato l'abc del manifesto cinematografico che ha una struttura tutta sua rispetto all'illustrazione commerciale. Il cinema è vario, devi saper fare il leone e il cavallo, essere un grande ritrattista, essere eclettico perché ogni film è diverso. Dopo la pubblicazione del mio primo manifesto, Favalli dice che posso mettermi in proprio e scrive una lettera di presentazione per le case di distribuzione. Inizio il giro con la cartella dei miei disegni, li ho conservati tutti. Mi adottò come pittore ufficiale la Manderfilm che importava pellicole russe e distribuiva anche film italiani e tedeschi. È stato determinante "Due occhi azzurri", con Marianne Koch, pensai a un manifesto moderno per i tempi, il film andò bene e quindi anche la pubblicità. Così decollò la mia carriera».

Chi le ha offerto la grande occasione?
«Ero il più giovane degli illustratori dell'epoca, ma potevo contare sul mercato degli indipendenti che era molto vasto: c'era una produzione italiana sterminata, tra western e peplum, Ercole, Maciste, film dell'orrore. Era il tempo di Ringo e affini: se c'erano dieci cavalli ne dovevi fare cento. Il produttore Amati mi richiamò: "C'è troppa polvere, io ti pago i cavalli non la polvere". Il salto di qualità è arrivato con Dino De Laurentiis che stava per trasferirsi negli Usa. Per lui feci i manifesti della "Bibbia" diretto da John Houston, entrai nel grande cinema e il manifesto arrivò a Los Angeles, sei metri per tre. Poi mi affidò "Flash Gordon", uno dei primi fantasy, e "Conan" con Arnold Schwarzenegger: è stato il personaggio che mi ha portato nel cinema che conta. In Germania ero diventato il numero uno, ci ho vissuto a lungo, ho la fortuna di avere una moglie tedesca che parla sette lingue e mi ha aiutato moltissimo. Mentre in Italia, colpo di fortuna anche questo, mi chiamano per "Trinità", inizia la saga di Terence Hill e Bud Spencer. Li ho fatti tutti. Mi invento Hill steso su questa specie di barellina trainata dal cavallo, faccio il bozzetto e su quel disegno poi girano la scena vera».

Quanti manifesti ha disegnato?
«Saranno forse più di 1500 in 70 anni di lavoro, c'erano tempi in cui ne disegnavo uno alla settimana. Dopo Conan e Rambo sono cambiate molte cose: ero il preferito, devo confessarlo. Ho raggiunto la piena maturità, sono stato il primo a usare l'aerografo nel cinema. Ho lavorato molto per gli americani, ma ho fatto quasi tutti i film di Sergio Leone, Bertolucci mi ha chiamato per "Tè nel deserto" e per "L'ultimo imperatore", Bresson per "Nikita", poi Coppola, e anche "007 Mai dire mai". Tanti amici italiani: Alberto Sordi, Verdone e Tornatore, Monicelli e i fratelli Vanzina, da "Amici miei" a "Sapore di mare". L'altro giorno ho visto Terence Hill a Monaco dove sta preparando un film e vorrebbe coinvolgermi in questa nuova avventura, come ai tempi di Trinità».

Le locandine alle quali è più legato?
«Quella di "Tè nel deserto" è diventata un cult, un poster venduto in tutto il mondo, ha vinto il Ciak d'oro. Due corpi in uno, dentro un caftano nero, due civiltà che si fondono. Di "Balla coi lupi" hanno fatto un poster gigante. E Conan che è diventato un'icona. Ma sono legatissimo anche al manifesto di un piccolo film come "Mamba", con lei che sta in un angolo del pavimento a scacchi, come vista dagli occhi di un serpente. La fortuna conta sempre: "Chiama Casaro perché porta fortuna", diceva Aurelio De Laurentiis grande scaramantico". L'attrice più bella da disegnare? "La mia musa è Marilyn Monroe. Sognavo di farmi la tomba con Marilyn che si adagia portandomi nel paradiso degli Oscar».
 

Ultimo aggiornamento: 21 Febbraio, 10:49 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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