Marmolada un anno dopo, Zaia: «Nella tragedia la fragilità della montagna. La zona rossa? Non serve»

Domenica 2 Luglio 2023 di Angela Pederiva
Marmolada un anno dopo, Zaia: «Nella tragedia la fragilità della montagna. La zona rossa? Non serve»

BELLUNO - Domani sarà trascorso un anno dalla strage della Marmolada.

Domenica 3 luglio 2022, ore 13.43: dal ghiacciaio di Punta Rocca si stacca un seracco pari a 63.300 metri cubi, che precipita verso valle alla velocità di 50-80 metri al secondo, portando con sé rocce e detriti per circa 2,2 chilometri, fino a travolgere diverse cordate di scialpinisti. Ne muoiono 11 e altri 8 restano feriti, ma servono 18 giorni per completare le ricerche, mobilitando fin dal primo istante 127 operatori di Protezione civile, affiancati da 96 unità di supporto. «Ricordo come se fosse adesso la comunicazione che ho avuto dell’incidente», dice Luca Zaia, presidente della Regione Veneto. 


Quali erano le informazioni?
«All’inizio le notizie erano molto frammentarie, ma davano comunque la dimensione di un disastro: era crollato un grattacielo di ghiaccio. Alle 14.33 gli elicotteri erano già sul posto, compresi i due di cui avevamo dotato la provincia di Belluno. La tragedia era avvenuta in Trentino, tant’è vero che ho chiamato subito il presidente Maurizio Fugatti, ma naturalmente non c’erano confini nei soccorsi. Purtroppo neanche nel bilancio delle vittime: 8 erano venete, anche se questo l’abbiamo capito solo con il passare dei giorni, grazie all’opera instancabile dei soccorritori, eroi che hanno messo a repentaglio le loro vite. Li vedevamo andare su e giù in missione, per cui ogni volta i familiari dei dispersi si aspettavano di vederli tornare con buone notizie, invece magari arrivavano senza aver trovato nulla. Uno strazio continuo».


Cosa le dicevano i parenti?
«Li ho incontrati con il premier Mario Draghi, erano sotto choc. Lo scenario era da esplosione, quello che restava dei corpi veniva recuperato a più riprese e pietosamente ricomposto nella cella frigo. Nei sacchi c’erano anche i pezzi degli indumenti e delle attrezzature che gli addetti cercavano di associare ai proprietari, per tentare di identificare le vittime in attesa del responso inclemente del Dna, dato che le salme erano irriconoscibili e non c’erano i documenti. In quella situazione terribile e inimmaginabile, è successa una sola cosa bella». 


Quale?
«Nella “sala del pianto” allestita a Canazei, c’erano due famiglie disperate, perché non sapevano più nulla dei loro cari. Nel frattempo dall’ospedale di Treviso mi dicevano che in Terapia intensiva era ricoverato un uomo, a cui non era stato possibile dare un nome, tanto che si pensava fosse un turista straniero. Ho chiesto a quei genitori angosciati se i loro figli avessero qualche segno particolare. Uno dei papà mi ha riferito due dettagli relativi a un orecchio e a un piede. A quel punto ho telefonato al Ca’ Foncello: “Non mi interessa niente della privacy e me ne assumo ogni responsabilità. Mandatemi le foto dell’orecchio e del piede di quel paziente”. Così le ho mostrate ai familiari di Davide Carnielli: era lui, molto grave, ma ancora vivo. Invece non c’è stato nulla da fare per l’altro ragazzo: era Nicolò Zavatta, la vittima più giovane, di cui sono poi andato ai funerali». 


Un anno dopo, il Tribunale di Trento ha archiviato l’inchiesta per l’imprevedibilità dell’evento. Condivide la valutazione?
«È stata una tragica fatalità. Le vittime erano persone esperte, o comunque accompagnate da guide alpine. Se quel blocco di ghiaccio si fosse staccato di notte, non sarebbe successo niente a nessuno. Purtroppo i cambiamenti climatici, che ci sono sempre stati e sono ancora molto evidenti, ci impongono riflessioni molto profonde sul rapporto tra l’uomo e la natura. La sintesi è che non siamo invincibili: non può passare il concetto che c’è la sicurezza al 100%, che basta fare bollettini e argini per stare tranquilli, perché il rischio zero non esiste. Dobbiamo difendere l’alpinismo, ma nella consapevolezza che quello sport ha una componente di rischio più alta della corsa in bicicletta, la quale ha una componente di rischio più alta della passeggiata a piedi, la quale ha una componente di rischio più alta del riposo sul divano...». 


Sì o no alla “zona rossa”?
«Istituirla solo per la Marmolada, vorrebbe dire essere incoerenti. E tutti gli altri ghiacciai? E tutte le altre montagne? Ho l’impressione che sia una roba tutta italiana quella di pensare sempre al divieto di accesso. Il dissesto idrogeologico è il nostro primo nemico, ma è pure il motivo per cui le Dolomiti sono diventare patrimonio mondiale dell’umanità Unesco: la loro fragilità è anche la loro bellezza. Piuttosto dobbiamo affinare i sistemi di controllo, e in questo la tecnologia ci aiuta con i satelliti e con i sensori, sempre però nella consapevolezza che oltre all’uomo, c’è il fato». 


Come finirà la guerra Veneto- Trentino sulla Marmolada?
«È una vicenda legale che si perde nella notte dei tempi. È legittimo che Rocca Pietore e il Veneto difendano un principio, è altrettanto comprensibile che il Trentino difenda lo status quo. Ma con la strage di un anno fa abbiamo dimostrato di saper fare squadra, più che piantare i picchetti per segnare i confini. È una tragedia che ci ha uniti ancora di più attorno alla nostra montagna».
 

Ultimo aggiornamento: 3 Luglio, 07:53 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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