Il patron Niederauer: «La mia vita nel pallone solo per passione. Non punto a fare soldi col Venezia»

Giovedì 20 Gennaio 2022 di Davide Scalzotto
IL PRESIDENTE Duncan Niederauer alla guida del Venezia Calcio

VENEZIA - «Il calcio è come il vino, una passione. Certo, è anche un business, ma con un’anima. Nel pallone, come nel vino, il dividendo non è meramente economico. Nel calcio il mio e nostro progetto di business è sostenibile: nel vino la soddisfazione è regalare bottiglie, condividere un buon prodotto». Duncan Niederauer​ si è italianizzato puntando sulle passioni di gran parte degli italiani: vino e pallone. Il 18 febbraio la sua presidenza del Venezia compie due anni, anche se nella compagine societaria è presente dal 2015.

Presidente, lei è un uomo di business. Vuole dire che il calcio per lei ha la stessa importanza che ha per un tifoso?
«Non ho l’aspirazione di fare soldi col pallone, tantomeno col vino, mi creda. Anzi, noi presidenti i soldi ce li mettiamo. L’ho detto fin dall’inizio alla squadra e loro, mi ricordo, mi hanno guardato increduli: “sono qui a lavorare per voi”. Non ci credevano. Li ho convinti: “tutto quello di cui dovete preoccuparvi, ho detto, è giocare bene”». 
Col vino invece come va?
«Abbiamo comprato una tenuta a San Casciano, in Toscana. E un vigneto. Sangiovese soprattutto, ma mia moglie Alison ama il bianco, per cui abbiamo piantato anche quello. Ma non lo faccio per guadagnare. Mi sono affidato a un “wine maker”, a un vinificatore, Giacomo Baraldo. Lui ne capisce. A me piace prendermi cura delle vigne, sentire i grappoli, la spremitura, fare il vino. Anche se so che ci possono essere annate buone e meno buone».
Come nel calcio del resto. Diciamo che anche qui ha trovato un buon “wine maker”. Paolo Zanetti ha portato in A il Venezia e oggi guida praticamente una multinazionale del pallone, una United States of Venezia...
«Zorro (Zanetti, ndr) è bravo, Ha perfino fatto progressi enormi con l’inglese. In squadra ha giocatori di 17 nazionalità diverse, comunicare con loro è importante...».
E lei come comunica con la squadra?
«Io parlo con i giocatori, punto a creare una famiglia. Ma rispetto la sacralità dello spogliatoio, quello è ambiente loro e dei tecnici. Le racconto un aneddoto».
Dica
«Lo scorso anno al Penzo, durante la finale di ritorno per la A col Cittadella, la squadra era in dieci, vedevo la difesa sotto pressione. Sono sceso dalla tribuna a incitare i difensori. Loro, dopo la fine della partita, mi hanno detto di avere sentito gli incitamenti, di essersi motivati».
Lei parlava di famiglia...
«È così, i giocatori devono vivere l’appartenenza a un gruppo. Sempre col Cittadella, quando venne espulso Mazzocchi, i ragazzi hanno fatto quadrato, mi hanno detto di aver giocato per lui, per il compagno che li aveva lasciati in dieci. Non avevano condannato chi aveva sbagliato, ne hanno tratto nuove motivazioni. Ci tengo molto che i calciatori vivano un rapporto anche fuori dal campo, con le mogli, le fidanzate, i figli. Questa forza fa la differenza, L’ha fatta lo scorso anno, quando qualche “esperto” di calcio pronosticò per noi il 18° posto in B. Si è visto come è andata».
Non la prese bene...
«Per nulla... Ma dissi alla squadra che dal giorno dopo aver letto il pronostico su quel giornale, avrebbero dovuto sentirsi ancora più forti. “Io so quanto valete - dissi - so perché siete qui e quello che potete dare”. C’è gente che si proclama “esperta” di calcio e gente che invece il calcio lo vive e lo conosce. Noi siamo un gruppo unito, una famiglia: vuole vedere la foto di Francesco Forte? Ecco (mostra la foto dello scorso anno, ndr) qui ci abbracciamo dopo un gol. Ora è andato al Benevento, ma ci siamo parlati ed entrambi sappiano il legame che c’è tra noi. Non gioca più a Venezia ma sa che fa parte ancora di questo gruppo. Questo è un “plus” per noi. Le grandi società sono aziende. Noi siamo una squadra dove il collante non è il business. E l’atteggiamento dei giocatori è diverso. In campo non si nota la differenza tra noi e una grande squadra, a livello di motivazioni e coesione».
Come riesce a far presa sull’orgoglio dei calciatori? Trova differenza tra un calciatore e chi fa un altro mestiere?
«No, sono sempre e solo persone. E le persone vanno motivate, ma non bastano le chiacchiere, i bla bla. Le faccio un altro esempio».
Prego...
«Abbiamo da poco acquistato Ullmann, giovane difensore austriaco, ultimo innesto nella nostra rosa. Quando lo abbiamo contattato ci ha chiesto notizie sul club, sulla società. L’ho fatto parlare con Cuisance, che è arrivato dal Bayern due settimane fa. C’è chi si è stupito di questa decisione, ma Cuisance ha spiegato al neo arrivo cos’è Venezia e il Venezia e l’ha convinto».
E lei la scorsa estate come ha convinto Zanetti a firmare un quadriennale? Una durata insolita in un calcio che consuma allenatori a ciclo continuo...
«C’erano alcune società che lo volevano. Gli ho detto che nessun cambio valeva Venezia, che un quadriennale a 40 anni, qui, sarebbe stata una bella sfida: uno dei tecnici più giovani della serie A con uno dei contratti più lunghi».
Senta, quest’anno avete portato in Italia un bel po’ di giocatori interessanti, alcuni sono stati una rivelazione. Ma l’ultimo arrivato è stato Nani, 35 anni, uno che in Italia si rimette in gioco dopo essere sparito dai radar. Come è andata?
«È andata che di notte Alex Menta, il nostro director of analytics, ha cercato l’agente di Nani e a lui ha detto “I have a dream”, aveva un sogno... Poco dopo mi ha messo in contatto con l’agente di Nani e con il giocatore. Hanno voluto conoscere il nostro progetto, glielo ab biamo spiegato ed è arrivato».
Ma quanto incide il brand Venezia nel convincere un giocatore a trasferirsi qui?
«Tantissimo. Quando uno arriva in aeroporto e viene portato al Penzo in taxi passando per il Canal Grande, con tutto il rispetto non c’è Empoli o Sassuolo che tengano».
E lo stadio Penzo è un valore aggiunto o vi penalizza?
«Il Penzo è uno stadio unico: pensi che è più piccolo di due metri delle misure standard, ma sempre a norma comunque. Eppure Allegri quando venne a giocare qui disse di temere il fattore campo di provincia, perché la gente è sul campo».
E in più quando si vince si festeggia con un tuffo in canale, come fece lei dopo la finale play off col Cittadella...
«Non me ne parli, fu un gesto spontaneo».
E lei che rapporto ha con Venezia? Ha casa?
«No, non ho casa. Ma quando ci vengo sto in hotel o in un appartamento. Mi piace Cannaregio e ho una pizzeria di fiducia in via Garibaldi dove vado con gli amici.

La gente mi ferma, mi chiede una foto. Capita che ci abbiano fermati con Cordoba in pizzeria. Ma io non mi tiro indietro mai. Credo di non aver mai detto di no a una foto con i tifosi. Qui in laguna, non mi sento un turista, ma un veneziano».

Ultimo aggiornamento: 09:27 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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