Giorgia Miazzo, la padovana che cerca le radici venete in Brasile

Lunedì 19 Febbraio 2024 di Edoardo Pittalis
Giorgia Miazzo, la padovana che cerca le radici venete in Brasile

CARMIGNANO DI BRENTA - I primi emigranti veneti s’imbarcarono 150 anni fa per il Brasile che era un paese lontano 12 mila chilometri. Il 21 febbraio 1874 dalla nave “Sofia” partita da Genova, con quella chiamata “Spedizione Tabacchi”, scesero 386 famiglie venete e si fermarono nello stato di Espirito Santo dove ancora oggi a Venda Nova do Imigrante si celebra la festa della polenta più antica al mondo. 
“Quaranta giorni di macchina a vapore/ Come le bestie ci tocca riposar”, diceva un canto popolare vicentino. L’emigrante Angelo Piovesan scrive a casa: «De quatro mile anime che si erano dentro saremo stati bene come me, sepure cento persone, cadaresto tuti hanno rendesto indrio, ma pelle abiamo fatto due e nati sete abiamo cresciuto…». Due morti e sette nascite nel viaggio. 
Da quel momento fu un esodo di massa, i veneti emigrarono a centinaia di migliaia in Brasile dove nel 1888 era stata abolita la schiavitù e al vecchio sistema si sostituiva quello fondato sull’immigrazione con la quale riprodurre una piccola Europa; anche per colore della pelle, dei capelli, degli occhi. Tra Ottocento e Novecento un quinto dell’emigrazione italiana nel mondo era di origine veneta. Il veneto era descritto nei rapporti consolari come un soldato del lavoro: «Instancabile, docile, remissivo, difficilmente sindacalizzabile, restio alla rivolta».
La più numerosa comunità italiana vive oggi nel Brasile, si calcolano 30 milioni di discendenti su 210 milioni di abitanti; i veneti sono quasi la metà. E c’è chi vorrebbe tornare: soltanto nel Veneto in un anno 12 mila brasiliani “oriundi”, cioè discendenti di emigrati italiani, hanno chiesto la cittadinanza facendo piombare nel caos i tribunali della regione. Secondo il presidente della Corte d’Appello potrebbero perfino alterare il quorum elettorale: la cittadinanza comporta l’iscrizione all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero e il diritto di voto. Le richieste nel Comune di Val di Zoldo, nel Bellunese, sono così tante che il sindaco Camillo de Pellegrin con ironia ha ribattezzato il suo paese “Val di Zoldo del Brasile”. 
«Ma non c’è questo pericolo» assicura la linguista Giorgia Miazzo, 46 anni, di Carmignano di Brenta, che va e viene dal Brasile per cercare le radici e mantenerle vive anche dopo la quarta generazione. «Un controesodo è difficile da immaginare. E da gestire. Per molti il legame con il paese di origine degli avi è ancora forte. Non per tutti però. Si tratta di capire le motivazioni che stanno alla base di ogni singola richiesta. Tenendo conto che parliamo di molti milioni di persone».
Giorgia Miazzo lavora soprattutto con i giovani: «Hanno una percezione dell’emigrazione sempre più debole, ma c’è questo amore che ancora lega, un filo invisibile che a un certo punto ti rivela quanto ancora siano veneti». 
Il Governatore Luca Zaia l’ha chiamata “ambasciatrice della veneticità nel mondo”.

Parla inglese, spagnolo, portoghese e francese. Tiene corsi di formazione, è interprete e traduttrice, presiede il Centro studi Grandi Migrazioni Nazionale con sede a Carmignano di Brenta che si occupa di tutelare il patrimonio immateriale dell’immigrazione. Ha di recente partecipato al terzo Festival della grande migrazione in Brasile: «Un viaggio toccante, sono stata in quattro stati, 60 conferenze su lingua e cultura venete. Solo a San Paolo c’è un milione di italiani dei quali la metà veneti. Una piccola comunità veneta, nello stato di Laore, abita a Nova Veneza, ci sono altre quattro cittadine con lo stesso nome in Brasile”. 


Come nasce questa passione per l’emigrazione?
«Mia mamma Bernadette viene da una famiglia in gran parte emigrata da Vigodarzere negli Usa. Sono figlia unica, ho due genitori aperti, che mi hanno sempre sostenuto nei viaggi. Sono commercianti e sono cresciuta in mezzo alla gente, gli adulti sono stati il mio pubblico fin da piccola. Mio padre Luigi era conosciuto come “Gino Jeans”, è stato il primo a portare i Levis in Italia, nel mio paese sono rimasta la figlia di “Gino Jeans”. Una volta in pensione, ha trasformato il negozio in un museo privato per una collezione sugli indiani d’America, il General Jeans Museum. A 20 anni sono andata con mio padre in un viaggio in Messico e mi sono resa conto della bellezza delle lingue straniere. Mi ero iscritta a Psicologia e ho cambiato facoltà, ho preso due lauree magistrali vivendo anche a Madrid, a Manchester e nella Repubblica Portoricana».


Come è arrivata al Brasile?
«La mia esperienza in Brasile è incominciata nel 2007, grazie all’università Ca’ Foscari. Sono arrivata negli stati del Sud, quelli degli italiani e dei veneti, nei primi di un agosto che mi aspettavo estivo, invece ho trovato il freddo e la nebbia. Volevo insegnare italiano all’università e sviluppare un progetto didattico per gli “oriundi”, così prima di fare una proposta ho pensato di intervistare la gente e col registratore in spalla ho girato per gli stati di Santa Catarina, del Paranà e di Rio Grande. Viaggiavo in auto di notte, in Brasile non ci sono treni passeggeri, solo merci. Le distanze sono immense, giungevo a tarda sera e chiedevo cosa volesse dire sentirsi ancora italiani, come parlavano, cosa mangiavano. Sono cresciuta con una nonna che parlava solo veneto, mamma mi ha proibito il dialetto e mi vergognavo un po’ di non conoscere la lingua che a scuola usavano tutti. Questo senso anche di proibizione l’ho percepito nel rapporto con molti brasiliani che ancora, miracolosamente, usano una sorta di lingua veneta, il taliàn, una lingua che è stata anche proibita per legge. Nessuno parla l’italiano, ma questa lingua del cuore, delle radici, delle lacrime». 


Così si è tuffata nel taliàn?
«Mi rendo subito conto che la mia ricerca non può essere fatta in italiano, ma nella loro lingua, il taliàn che è un ibrido: una lingua che è anche il risultato del bisogno di riprodurre le origini, di sopravvivere non solo col corpo, ma anche col cuore. Della lingua qualcosa si è conservata di più nello stato di Rio Grande do Sul da dove, soprattutto gli emigrati vicentini, sono saliti fino al cuore del Brasile e hanno fondato città e paesi. Verso Santa Catarina basta seguire la toponomastica: Nova Belluno, Nova Vicença, Nova Treviso, ma anche Nova Roma. Ho ripreso per i capelli quello che la mamma mi ha raccontato dei nonni: la nonna paterna che faceva la sarta e mentre cuciva cantava sempre; il nonno materno che si alzava alle tre di notte per preparare da mangiare a 50 contadini che dovevano lavorare nei campi».


Cosa è rimasto oggi del Taliàn?
«Oggi il taliàn è parlato da milioni di persone ed è stato riconosciuto come lingua nazionale. Nel 2012 avevo portato un progetto “Cantando in taliàn” un metodo didattico per imparare la lingua con la musica. Per oltre dieci anni ho lavorato con 200 comunità in Brasile, con 30 mila studenti: corsi, conferenze, università, scuole di italiano. La gente pensa che il “taliàn xe tuto sbaglia”, che non esiste in Italia, che si sia perso sulle navi. Occorre far capire loro che il taliàn non è una lingua sbagliata, che siamo noi che non la capiamo. Nel documentario “Veneti al di là del mare”, ho intervistato una signora di 106 anni che ha raccontato il viaggio di sola andata fatto da ragazzina. Il signor Mocellin che ha fatto la guerra ed è tornato, dove non c’era niente ha costruito una città. C’è l’orgoglio mescolato alla vergogna, è difficile sentirsi parte di una patria che non si è mai conosciuta».
150 anni fa la “Spedizione Tabacchi”. 150 anni dopo “Val di Zoldo del Brasile”. Il cerchio non si chiude sempre. 

Ultimo aggiornamento: 20 Febbraio, 10:28 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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