Mestre, mafia al Tronchetto: i servizi del boss al capo della Mala. «L'inchino di Galatolo a Trabujo»

Martedì 20 Settembre 2022 di Nicola Munaro
Mestre, mafia al Tronchetto: i servizi del boss al capo della Mala

VENEZIA - Vito Galatolo è un pentito di mafia dopo essere stato il boss dell'Acquasanta di Palermo. Due mesi prima di venire arrestato a Milano, nel giugno 2014, Galatolo è a Mestre. Deve incontrare Loris Trabujo per una sorta di inchino: nel suo interrogatorio davanti al sostituto procuratore antimafia Giovanni Zorzi, Trabujo lo definisce un «placet» per estendere i suoi affari a Venezia.

«L'inchino di Galatolo a Trabujo»

È il 2 settembre, Loris Trabujo, imprenditore nel settore del trasporto acqueo e presunto boss della nuova Mala, decide di farsi interrogare a quasi nove mesi dal blitz e tra mezze ammissioni, e altrettante prese di distanza, racconta dell'incontro. «Ho conosciuto Vito Galatolo all'incirca due mesi prima del suo arresto, in una sola occasione. Lui - dice Trabujo - voleva parlarmi e mi ha chiesto di incontrarlo in un bar a Mestre in via Verdi, all'angolo. Quando ci siamo visti io non ho detto nulla e lui ha tenuto a presentarsi dicendo che lui faceva parte di una famiglia importante e che quando veniva a casa degli altri era abituato a chiedere il permesso». Cosa significasse, lo spiega ancora Trabujo: «Mi diceva che, facendo parte io dei Mestrini, voleva quindi avere il mio placet per agire a Venezia. Io gli dissi - continua - che i Mestrini erano in galera da trent'anni e che io non ne facevo parte e che non sapevo come aiutarlo. E così ci salutammo. Sapevo che lui lavorava per Otello Novello come accompagnatore di turisti».
Formalmente Galatolo lavorava al Tronchetto come manutentore di imbarcazioni, in realtà secondo i carabinieri del Ros doveva assicurare protezione a Novello, l'imprenditore più importante dell'isola Nuova nel settore del trasporto acqueo turistico, conosciuto con il soprannome di Coco cinese, il quale si sentiva minacciato dopo essere stato caricato a forza in un'auto probabilmente perché tardava a pagare il pizzo.
E per far tutto questo il boss dell'Acquasanta aveva chiesto il permesso a Trabujo.

Niente mafia

Nelle sette pagine di verbale ammette «le mie responsabilità in relazione ai reati di rapina e di armi che mi sono stati contestati» ma «ero contrario a gestire il traffico di droga anche perché, da tossicodipendente da cocaina, ho sempre cercato di evitare di occuparmi di questa attività» che invece due ex componenti di spicco della banda dei mestrini, Gilberto Lolli Boatto e Paolo Pattarello, un tempo alleati di Felice Maniero e indicati dalla procura come ideologi del ritorno della Mala «volevano fare tanto. Io - sottolinea Trabujo - ho fatto di tutto per tenermi lontano». E con Boatto, che per la procura considerava Trabujo il proprio erede, l'imprenditore dei taxi dice che «non c'è mai stato un accordo tra di noi per ricostruire una struttura associativa». Qualche progetto, ma «nulla che sia poi sfociato in un piano».
Trabujo si sofferma sulla rapina al motoscafista Stefano Fort derubato all'interno del garage del Tronchetto, di 550 mila euro in contanti appena incassati per la cessione della sua società, comprensiva di licenza di noleggio con conducente. «Fort stesso ne parlò ampiamente prima dei fatti al bar delle due ruote - ammette - In particolare ricordo che precisò due o tre giorni prima che il martedì gli sarebbe cambiata la vita e da quello io capii che quel giorno avrebbe avuto il denaro con sé». Le altre rapine? «Gli obiettivi sono sempre emersi a seguito di informazioni recuperate a seguito della mia attività». E i vestiti delle forze dell'ordine trovati a casa sua? «Sempre utili per fare rapine».
 

Ultimo aggiornamento: 21 Settembre, 10:25 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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