La sfida di Marco Feltrin: «La mia "Feria" del gusto: l'Indonesia nel piatto»

Martedì 22 Agosto 2023 di Chiara Pavan
Marco Feltrin e la moglie Sriyanti al Feria di Treviso

La cucina è un luogo strano dove formarsi, «ho preso una valangata di “parole”, giornalmente, e in tutte le lingue, ma forse di più in italiano», nonostante fosse a Londra o a Sydney, in Australia, e poi in Indonesia, a Giacarta, dove oltre al lavoro ha trovato moglie. Risata allegra, Marco Feltrin ricorda con gioia i suoi primi passi nella ristorazione, luogo “anomalo” per chi nasce dentro una dynasty del design, la Arper, ma vuole sfuggire a un destino di “industriale” che sembra già scritto per lui. «Dovevo cercare una via in cui affermarmi senza esser figlio di o nipote di... - ricorda lo chef, quarant’anni compiuti da poco- Perché se non è la tua passione, anche se...

di famiglia, non funziona». La sua strada Marco l’ha trovata girando tra le cucine del mondo, e poi nella sua Treviso, dove tutto era iniziato da ragazzo, negli stessi locali di “Vineria” dello stellato Francesco Brutto. «È come aver chiuso un percorso, sono tornato nel posto in cui ho cominciato, e soprattutto ho il mio sommelier che era il mio ex collega».

 

E cioè Regis Ramos Freitas (foto), socio e amico di grande competenza, una certezza nel raccontare vini, creare cocktail, suggerire abbinamenti. Così, ristrutturata e rimessa a nuovo, l’ex Vineria è diventata la sua “Feria”, festa in lingua spagnola, ristorante e bistrot che reinterpreta l’etnico, o meglio l’Oriente, in chiave contemporanea.
Come mai questo nome?
«Mi piaceva questa festa del popolo, quest’idea di condivisione, non volevo usare un nome indonesiano, troppo caratterizzante».
Quindi la sua cucina è...
«Contaminata. “Fusion”, e non tra Indonesia e Italia ma di tutte le cucine del sudest asiatico, quindi Vietnam, Thailandia, Indonesia. Mia moglie Sriyanti è il mio “termine di paragone” nei dosaggi di peperoncini e spezie. Lei è palato indonesiano al 100 per cento, ma non posso ascoltarla sempre perchè ha una tolleranza al piccante che ci stende tutti».

Cosa la colpisce?
«I sapori decisi e i contrasti forti tra acido e piccante, tra freddo e caldo. E poi a livello del cibo i colori sono belli, accesi e le consistenze sono diverse dalle nostre. Mi piace il croccante, ma anche quella sorta di “gommoso” che da noi non si usa. E comunque, essendo un mondo che ho iniziato a conoscere tardi, ne sento il fascino: per me è sempre una cosa nuova, e quindi studio e cerco di approfondire. Stimolante».
È partito come pizzaiolo...
«Dopo liceo scientifico al Da Vinci, non avendo le idee chiare come i compagni che andavano all’università, mi sono preso un anno per vedere. Ho fatto l’aiuto pizzaiolo a Monastier. Mi ha fatto capire che questo ambiente iniziava a interessarmi».
E dopo le pizze?
«Ho pensato: faccio un tentativo all’università, mi sono iscritto a Lingue e Letterature straniere a Padova, ero appassionato di russo, con un amore smisurato per Dostoevskij. Ma lì ho capito che non dovevo perdere tempo, avevo 23 e iniziare da zero nella cucina, a quell’età, non è semplice».
Nella serie “The Bear” lo chef mette ordine nella sua vita partendo dalla cucina.
«Sposo in pieno questa frase. Ma mettere ordine in cucina, per me, è arrivato dopo: prima dovevo capire come fare. Così mi hanno presto alla Vineria. Una bella partenza. Nel frattempo, però, avevo una grande voglia di partire. Era il 2008».

Come mai?
«Volevo guardarmi attorno, imparare. A quell’età ti affascinano le tecniche, le sperimentazioni, vedere il piatto finito e capire come ci è arrivati. A livello di organizzazione, beh, non ci pensavo ancora. E quindi parto per Londra, vado all’Harris bar, lì ci passano Al Fayed, principi e principesse contesse, jet set, Kate Moss, Naomi Campell...».
Incontrate?
«Macché, io sempre nel seminterrato, era la tipica cucina inglese dove non vedi niente, neanche se fuori piove, lavori tantissimo e ti prendi anche un sacco di parole. Ma ho imparato molto, c’erano 8 persone, ognuno faceva il suo, una disciplina forte, anche se il personale veniva sempre... “maltrattato”».
Parolacce in inglese?
«In italiano, il capo era pugliese (risata). Ero andato a Londra per imparare anche l’inglese, ma alla fine parlavo italiano e cucinavo italiano. Così ho cambiato, sono passato a un Gastropub inglese per immergermi di più nell’ambiente, era a Mayfair, a fianco alla casa di Johnny Depp, altro locale di livello alto, servivamo anche il principe Harry».
E loro? Incontrati?
«Zero, ero sempre in cucina-scantinato sotto terra, ogni tanto arrivava un cameriere che ci diceva dei vip di sopra. Però lì ho completato un percorso che mi ero posto. Da lì sono tornato nell’ambiente degli stellati. Heinz Beck, cucina di un hotel a 5 stelle di super lusso».
Sempre insulti?
«Beh, quelli non mancano mai, forse erano anche aumentati. Diciamo che sono una costante, ci si tempra, d’accordo, forse non è un modo di funzionare consigliato: il personale lavora solo perché ha paura? Chi lo sa?»

E dopo è arrivato il Nobu?
«Sì, è il posto che più ha avuto influenza su di me e che sento ancora. Qui il tono era più amichevole, forse perché il primo approccio alla cucina e ai piatti era diverso: Nobu fa cucina “nikki”, quella sviluppata dagli emigrati giapponesi spostati in Perù, una commistione tra la pulizia giapponese e i sapori del Sudamerica. Ci sono stato tre anni, era un ambiente stellato, di granti numeri, 600 persone al giorno».
Ottimo per farsi le ossa.
«Sei sempre in trincea, eh, ma mi sono anche molto divertito, e il merito era dei miei capi e colleghi, mi sono trovato benissimo. All’epoca cercavo anche di capire se ero in grado di aprire un posto mio a Londra. Ma il benessere che provavo allora era legato alle persone incontrate, quando sono andate via non stavo poi così bene. Ero un po’ confuso».
Quindi il salto a Sydney.
«Un mio ex collega mi aveva chiesto una mano per sei mesi, era chef a Sydney. Così sono partito per l’Australia, regno del sole dopo anni di Londra grigia. Lì ho portato a frutto il training fatto. Ho provato un bel posto, Lumi, ho iniziato a capire davvero come mandare avanti una cucina. Altri tre anni bellissimi: sognavo di fare qualcosa di mio».

Un locale suo?
«Sì, sono andato a trovare un ex collega a Singapore, volevo trovare un socio per aprire un ristorante, lui in sala e io in cucina, ma invece ho trovato la mia attuale moglie. E così sono approdato in Indonesia, a Giacarta, altri anni in cui ho incontrato ottime persone, ottimo cibo e ho imparato tantissimo. L’obiettivo a medio termine era comunque tornare in Italia, il covid ha accelerato i tempi, e sono tornato».
Il richiamo di casa...
«Già. Esperienza l’avevo. E sono stato sempre ottimista, anche stanco di quel mood diffuso di tanti giovani che si lamentano che a Treviso non c’è niente: sinceramente, se non ci impegniamo noi, chi la fa? Dopo tanti anni di lontananza, volevo avere la famiglia vicina».

Ed ecco la Vineria all’orizzonte.
«Già, ho chiuso il cerchio. Il locale ora è mio, e l’ho cambiato radicalmente. Francesco Brutto aveva dato un’impronta forte, non potevo modificare solo le tende».
Cibo indonesiano cucinato da un italiano.
«Il mio palato è italiano e quindi capisco cosa può interessare ai clienti, cosa devo equilibrare. I prodotti, specialmente carne e pesce, sono italiani e di alta fascia. In Indonesia si usano tante spezie, anche per coprire una materia prima non eccellente. Insomma, devo sempre fare un po’ di opere di adattamento...».
Ad un anno e mezzo dall’apertura, che bilancio fa?
«Feria ha due spiriti e due offerte diverse. C’è la parte informale e giovane, il Satè bar, e per questo spazio stiamo ora pensando a una serie di eventi da vivere al suo interno. E poi il ristorante, Feria, frutto di anni di esperienza. Il menù è costruito su un’offerta che può essere capita anche qui, mettendo l’accento sulla condivisione. Che è il senso della “feria”, la grande festa dello stare insieme».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci