In semilibertà dopo aver tentato di uccidere l'ex moglie con l'accetta. Lei: «E non si è mai pentito»

Sabato 20 Marzo 2021 di Denis Barea
Stefano Rizzo, condannato nel 2013 a undici anni per il tentato omicidio della moglie. Lunedì scatta la semilibertà
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CONEGLIANO - «Sono felice, per me si apre una nuova fase della vita. Ho commesso degli errori ma ora, alla fine, volterò pagina». Sono più di sette anni che Stefano Rizzo è dietro le sbarre per aver tentato, nel luglio del 2013, a Parè di Conegliano, di uccidere la moglie Gianangela Gigliotti a colpi di accetta. La donna rimase gravemente ferita al punto da essere ridotta a stare su una sedia rotelle, fortemente menomata alle braccia e alle gambe. Nell’aggressione perse anche tre dita, che le vennero riattaccate ma di cui ha perso la funzionalità. 

Lunedì prossimo - 22 marzo - per Stefano Rizzo scatterà la semilibertà. Sarà fuori dal carcere di giorno, occupato presso una cooperativa ma tornerà dietro alla sbarre la sera per dormire. «Ho quasi pagato il mio debito, è una vicenda che voglio mettermi alla spalle» ha detto. «Lo sapevo - dice invece la moglie - immaginavo che sarebbe finita così. Non chiedetemi di augurargli ogni bene perché non lo faccio. Sapete quando mi ricordo di lui? Ogni mattina, quando mi alzo dal letto, e soffro per i dolori. Ecco, in quei momenti un po’ ci penso e qualche “maledizione” gliela mando». Condannato a 11 anni con sentenza passata in giudicato, non ha mai detto una parola sui fatti di quel luglio, quando raggiunse la casa della donna, che si era separata da tempo dal marito a causa delle sue infedeltà, e la sorprese mentre, nella sua abitazione di Conegliano, era da sola. 

Rizzo raggiunse il condominio di via Vecchia Trevigiana a bordo dell’auto aziendale; era entrato nel cortile del condominio senza farsi vedere da nessuno, approfittando del buio. Aveva raggiunto una porta finestra, sopra la pensilina d’entrata del condominio. Dopo aver forzato una piccola ringhiera in ghisa, era entrato nell’abitazione. La trovò mentre si trovava davanti al computer e, a quel punto, iniziò la brutale aggressione a colpi d’accetta. Fendenti al collo, alle braccia e alla schiena sferrati con violenza, tanto da tranciare di netto alla vittima tre dita della mano. La donna, che rischiò di morire dissanguata, venne ritrovato 20 minuti dopo l’aggressione dal figlio. Rizzo nel frattempo si era dato alla fuga. Raggiunse la foce del Piave, a Cortellazzo, gettò l’auto aziendale nel fiume e lasciò i documenti sulla riva per inscenare un suicidio. Poi, con una bici rubata, raggiunse San Donà, vagando senza meta. Dopo quattro giorni di latitanza venne arrestato a casa della madre ad Arcade. Rizzo, che tornerà alla libertà tra tre anni, aveva già fatto richiesta di avere dei permessi, l’ultima volta due anni fa, ma i giudici della Sorveglianza avevano però sempre negato il beneficio.

«Non ho paura di lui nel vero senso della parola - torna a dire Gianangela Gigliotti - piuttosto ho un timore, anche se so che sarà molto controllato e che non avrà la possibilità di venire qui a “finire” quello che voleva fare nel 2013. So anche che fuori dal carcere ha delle persone che lo aspettano, è padre di un bambino piccolo, questa è la sua vita e non mi riguarda. Come dice mio figlio lui è solo il ricordo di quando stava seduto in poltrona, a guardare la televisione, senza dire una parola. Non è un padre, non è mai stato un marito, è solo una persona cattiva che, nel corso del processo, non ha avuto mai neppure una parola di pentimento.

Però da lui voglio quello che è giusto, una parte del denaro che mi deve: una provvisionale di 350mila euro, un risarcimento che vale due milioni. Li voglio tutti? No, per carità. Cento, duecento euro al mese. Non è per i soldi, è una questione di principio. Il principio per cui deve contribuire a pagare le spese che io devo sostenere per quello che mi ha fatto».

Ultimo aggiornamento: 11:08 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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