Dalla mafia alle Dolomiti, «Io signor questore, ma prima di tutto una signora»

Domenica 20 Ottobre 2019 di Alda Vanzan
Dalla mafia alle Dolomiti, «Io signor questore, ma prima di tutto una signora»
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Ci sono donne che da bambine sapevano cosa avrebbero fatto da grandi. E ci sono donne che invece sapevano perfettamente cosa non avrebbero voluto fare. «Avevo otto anni ed ero certa: non mi sarei mai sposata, non avrei fatto l'avvocato, non mi sarei fermata a vivere a Belluno. Due propositi li ho trasgrediti, non mi resta che diventare avvocato e faccio terno». Lilia Fredella, 55 anni compiuti lo scorso 18 ottobre, alta, bionda, ironica, un curriculum alto così che contempla il gruppo di indagine sulle stragi di mafia con Arnaldo La Barbera a Palermo fino al lavoro nella Scientifica per il delitto della povera Yara Gambirasio, è dallo scorso 2 settembre a capo della Questura di Belluno dove comanda 178 uomini, di cui 24 a Cortina. È tornata nella città dove era arrivata all'età di quattro anni e mezzo perché il papà Nicola, di origini pugliesi, dopo un'esperienza a Venezia era diventato direttore dell'Enpas, e dove tuttora vive la madre Maria Spadafina. A Belluno il questore ha fatto elementari, medie, liceo scientifico. Per l'Università si è spostata in Toscana, la terra della nonna materna cui deve il nome di battesimo, laureandosi in Giurisprudenza a Siena. Dopodiché, già refrattaria alla professione forense, ha accolto il suggerimento del papà: perché non fai il concorso in polizia?
La prima domanda è di etichetta: come va chiamato un questore donna? Signor questore? Signora questore?
«È la prima cosa che mi hanno chiesto appena arrivata a Belluno. Visto che signora lo sono e signora questore suona davvero male, va benissimo signor questore».
Non siete poi tante in tutta Italia.
«Una decina su 106. A Udine Manuela De Bernardin, che tra l'altro è bellunese. Direi che la nostra percentuale batte quella del settore privato: in polizia noi donne il soffitto di cristallo l'abbiamo già infranto».
Com'era finita a Palermo nel gruppo denominato Falcone-Borsellino?
«Era un mio sogno, consideri che quando mi capitò l'occasione avevo già letto un paio di centinaia di libri sulla mafia. La Barbera è stato un grande maestro, aveva una capacità di visione degli aspetti investigativi impressionante. All'epoca, stiamo parlando del 1993, la mafia era tutta da scoprire, a parte Buscetta non era ancora il tempo dei pentiti».
La associano alla soluzione del caso Yara e lei ogni volta sottolinea che quello fu un lavoro di squadra anche se la traccia di Dna di Bossetti la scoprì il suo biologo. Come arrivò a Brembate di Sopra?
«Ero alla Scientifica a Milano, ci chiamarono da Bergamo per un sopralluogo, avevano rinvenuto un cadavere in un campo. Era il corpicino di Yara, trovato tre mesi esatti dopo la scomparsa. Quel sopralluogo durò 27 ore, perlustrammo 7mila metri quadri di terreno palmo a palmo».
Bossetti, condannato all'ergastolo, si proclama innocente. Al di là delle sentenze, lei cosa pensa?
«Quali motivi ci sono per cui il Dna di un uomo adulto è ritrovato su una ragazzina che lui dichiara di non conoscere e di non avere mai frequentato? Come si legge nel Criminal Profiling dell'Fbi, quando si arriva a un certo tipo di delitti il movente è sempre di natura sessuale, a prescindere dall'atto sessuale».
Su quanti omicidi ha lavorato?
«Tanti. Gli uomini della Scientifica sono quelli che patiscono di più, perché lavorano sui corpi delle vittime. Sa cosa dice il commissario Ricciardi nei romanzi di De Giovanni? Che i cadaveri parlano. È così».
Se li ricorda tutti gli omicidi o cerca di cancellarli?
«In un angolino della memoria, ma ci sono tutti. Avevo un pensiero ricorrente: oggi sei qui, tra 24 ore potresti finire nel mirino di un assassino. Il male lo puoi incontrare anche in contesti tranquilli. Pensi a Yara, poteva succedere a chiunque, in qualsiasi paese».
Nel settembre 1999, un mese dopo la fine del conflitto, è stata in Kosovo impegnata con la missione Onu. Un episodio singolare di quel periodo?
«In Kosovo non c'eravamo solo noi italiani, impegnate nella missione dell'Onu c'erano forze di polizia di 49 paesi. Tra cui poliziotti delle isole Figi. A parte il fatto che gli agenti appena arrivati dovettero cercare qualcosa con cui ripararsi dal freddo - era novembre - perché la loro divisa con gonnellino bianco e giacca a maniche corte non era adatta alle temperature del Kosovo, ci fu un episodio singolare: incidente stradale, morti, interviene una pattuglia mista, due italiani e due figiani. Che si rifiutano di intervenire per non prendere il malocchio del guidatore coinvolto nel sinistro».
Lei fa parte di Fidapa, la Federazione italiana donne arti professioni affari. Perché?
«È un'associazione di donne che ritengono di poter svolgere un ruolo all'interno della società. Abbiamo fatto belle iniziative per l'empowerment femminile. Io credo al concetto di role model, al fatto di invitare le donne a non autolimitarsi».
Cosa direbbe alle ragazzine che vogliono fare le influencer e come modello hanno Chiara Ferragni?
«Devo dire che Chiara Ferragni non raccoglie il mio disappunto, ha avuto una grande intuizione imprenditoriale. C'era uno spazio e l'ha occupato. Non è l'unica: la bellunese Clio Zammatteo, anche se ora vive a New York, è la fondatrice del marchio ClioMakeUp. Certo, da qui a dire che l'influencer sia il mestiere del futuro ne passa».
Il questore di Belluno è social?
«Ho un profilo Instagram perché mi piacciono le immagini. Su Twitter credo di non aver messo neanche un tweet. Però la Questura di Belluno ha un profilo Facebook seguitissimo, così ho dovuto aprirne uno anch'io, devo pur controllare».
Che rapporto ha con la divisa?
«Avevo, ora da questore devo vestire in borghese. La divisa la amavo tanto, tanto, tanto. Era un abito anche mentale».
Ha detto che da piccola aveva tre propositi e due li ha trasgrediti: tornare a vivere a Belluno e sposarsi. Quando c'è stato il matrimonio tra lei e l'ispettore Alessandro De Nanni?
«Ci siamo sposati in due fasi. Il rito civile, con pochi intimi, nel 2013 qui a Belluno. La cerimonia religiosa un anno fa, il 28 settembre, a Campiglia d'Orcia, un paesino in Toscana di dove è originaria la mia famiglia. È stata una festa agreste, il dress code era panama e cappello di paglia».
Come vi siete conosciuti?
«A Milano, lui è venuto alla Scientifica ed è diventato un mio dipendente. Quando ha sposato il capo ha dovuto cambiare ufficio. Ed è più giovane di me di 11 anni. Anche questo da bambina non l'avrei mai immaginato: sposarmi, sposarmi con un dipendente e pure più giovane! Comunque, essendo lui laureato in Lettere antiche con indirizzo archeologico, ci rido su pensando che il mio futuro è tranquillo: proverà maggiore interesse!».
L'aggettivo per descrivere suo marito?
«Per me è easy person. Alessandro sa rendere la vita facile, piacevole, piena di sentimento».
Il luogo in cui sta bene?
«In mezzo alle Dolomiti».
L'ultimo libro letto.
«Sto leggendo La mattina dopo di Mario Calabresi. Scrive benissimo».
Il capo di abbigliamento che non indosserebbe mai.
«I vestiti strizzati, non ho più l'età».
Il regalo più costoso ricevuto?
«Mio marito non mi regala gioielli, viaggi sì. Il primo un viaggio a New York. L'ultimo, per risarcirmi delle serate trascurate mentre studiava per il concorso da ispettore, a Parigi e in Bretagna. Romantico? Sì, molto. Sono io la trucida».
Alda Vanzan
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Ultimo aggiornamento: 21 Ottobre, 13:48 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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