Gli rubarono il pc e si tolse la vita: la tragedia di Giacomo Sartori diventa un podcast

Mercoledì 8 Novembre 2023 di Valeria Arnaldi
Giacomo Sartori si tolse la vita dopo essere stato derubato del Pc

BORGO VALBELLUNA - «Mi trascino a fatica sulla tastiera, dopo aver bruciato ore e giorni in attesa di trovare il coraggio per cominciare». Si apre così, con la voce appesantita dalle emozioni e la tensione di chi nel racconto vede una missione, il primo capitolo del podcast in otto puntate – l’ultima sarà sulle piattaforme dal 7 novembre - A domani. La scomparsa di Giacomo di Niccolò Agliardi, prodotto da Vois e giunto al primo posto nella classifica di Spotify. Un lavoro intenso, fatto di ricerche, ascolto, attenzione. Cantautore e autore – suo il testo per Laura Pausini Io sì, vincitore nel 2021 di Golden Globe e Nastro d’Argento, e nominato agli Oscar – dopo Falò dedicato ai cantautori, Agliardi torna al podcast. E lo fa per raccontare la storia di Giacomo Sartori, 29enne come tanti, originario di Mel, nel Bellunese, e trasferitosi a Milano, città esigente, dalle grandi prospettive, dove non è difficile sentirsi esclusi, forse inadatti. Dopo una giornata di lavoro e una serata con gli amici, rimasto vittima del furto del suo zaino con il pc, Giacomo ha fatto perdere traccia di sé nella notte tra il 17 e il 18 settembre 2021 e una settimana dopo è stato trovato senza vita.

Le indagini hanno portato alla luce disagi, dolori e ferite dell’animo che lo hanno spinto al suicidio. È su queste che Agliardi punta l’attenzione. Perché sono comuni, fin troppo, ma se ne parla poco. 


Come è nata l’idea di raccontare la storia di Giacomo? 
«Da più coincidenze. Un giorno a Milano, mi sono trovato in una situazione analoga alla sua. Ero in centro e mi hanno rubato lo zaino. Avevo perso pc, iPad, telefono, mail. È stato difficile tornare in possesso della mia identità digitale, che di fatto ormai significa anche identità analogica». 
Da cantautore, perché scegliere come strumento il podcast? 
«La storia aveva bisogno di un tempo lungo. Questa è una vicenda piena di sfumature, di misteri, di verità. Ad essere illustrata è la vita. Avrei potuto fare un libro, ma volevo le voci». 
Ha ricostruito la storia di Giacomo, parlando con parenti, amici, conoscenti, ma anche esperti, tra magistrati, psicologi e via dicendo. Quanto tempo ha impiegato?
«Un anno e nove mesi. Ho fatto vari viaggi prima di iniziare. Se non avessi avuto la piena fiducia della famiglia, non avrei mai iniziato, sarebbe stato pericoloso sia per la mia credibilità, sia per quella della storia». 
Che rapporto ha avuto con i parenti? 
«Tommaso, il fratello di Giacomo, si è fatto portavoce della famiglia e ha scelto di affidarmi la storia, dopo avermi studiato per un po’, affinché quanto accaduto potesse avere un’utilità a livello sociale. Un giorno è venuto, portando una bottiglia di vino rosso. Mi ha detto: “Questa la apriamo quando tutto sarà finito”. Poi è iniziato il suo racconto straziante. Ci siamo fatti una promessa». 
Quale? 
«Se questo podcast avesse fatto male a qualcuno, anche solo a me, ci saremmo fermati». 
È accaduto? 
«Sì, per un po’. Il 12 novembre scorso, giorno del compleanno di Giacomo, sono stato invitato a una festa per lui nel suo paese. Quando sono tornato a Milano, non sono stato bene. Mi sono chiesto se avessi davvero il diritto di chiedere quella fiducia ai familiari. Ho parlato con Tommaso, spiegandogli il mio malessere, gli ho detto che non sapevo se avrei avuto la forza di andare avanti». 
Ha pensato di abbandonare? 
«L’ho fatto per un mese. Poi, ho deciso di riprendere». 
Per testimoniare il disagio di Giacomo?
«Sì. Per costruire il racconto mi affido a medici, magistrati, giornalisti, persone competenti e soprattutto agli affetti di Giacomo. Non si fanno sconti a nessuno, né ai morti, né ai vivi, né ai sopravviventi. È un disagio più diffuso di quanto non si pensi». 
E come lo illustra? 
«Per la gran parte del podcast mi rivolgo direttamente a Giacomo, come se non sapessi come sono andate le cose, poi quando ripercorro i suoi ultimi giorni c’è un cambio di passo e attraverso le testimonianze spiego ciò che è accaduto dopo: le indagini, gli esami sui dispositivi digitali, il telefono spento e le chiavi della macchina accanto a lui come un altare per aiutare a trovare le risposte. E poi c’è il racconto degli altri». 
Chi sono?
«Non necessariamente i familiari e gli amici, ma tutti quelli che soffrono di inadeguatezza in una società che ci vuole sempre vincenti, possibilmente filtrati da applicazioni social che ci mostrano costantemente felici»
Come viveva questo Giacomo? 
«Lui aveva scelto di non partecipare al gioco e forse è stato più coraggioso: non ha accettato compromessi. Il suicidio è una scelta poco condivisibile, ma per qualcuno è l’ultimo baluardo contro la sofferenza. E dopo la pandemia, tra i giovani dai 19 ai 35 anni è diventata la prima causa di morte. È un’emergenza sociale ma il tema è ancora tabù». 
La sua storia, dunque, nel, podcast diventa quella di tanti? 
«Esattamente. Fallire non significa essere fallimentari. Siamo tutti malati, ammaccati, abbiamo alcune zone d’ombra. Nessuno può mostrarsi solo con le sue parti radiose». 
Quali sono state le reazioni? 
«Il podcast è un mezzo usato tra i 25 e i 40 anni, ho ricevuto messaggi da genitori che hanno paura per i figli, si accorgono dei loro malesseri e non sanno come gestirli, e da tanti ragazzi. Ce ne sono molti in quella zona nera».
E adesso? 
«Voglio continuare su questa via. Non so ancora a cosa mi dedicherò ma vorrei mantenere questa cifra, anche partendo da un caso di cronaca, non necessariamente drammatico. Mi interessa capire cosa c’è dietro le persone». 

Ultimo aggiornamento: 9 Novembre, 09:39 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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