L'INTERVISTA
Incidere, lasciare un segno. Sembra una chimera nell'era della musica

Martedì 1 Dicembre 2020
L'INTERVISTA
Incidere, lasciare un segno. Sembra una chimera nell'era della musica liquida. Non per Claudio Baglioni, che a 69 anni, venerdì 4 dicembre torna con un album kolossal sfidando le tendenze del mercato. In questa storia che è la mia (Sony Music), che presenterà in anteprima giovedì alle 21 in diretta streaming su RaiPlay e Radio2, rompe un silenzio discografico lungo 7 anni: 78 minuti tra canzoni (14 in tutto), overture, interludi e una conclusione.
Come va ascoltato?
«Dall'inizio alla fine. Negli Anni 70 sarebbe stato definito un concept album: ci si sedeva di fronte al giradischi e si sognava a occhi chiusi».
Oggi nessuno ascolta più i dischi così, lo sa vero?
«Sì, cosa dovrei fare? Travestirmi da trapper? Ragiono all'antica. Quelli come me devono avere il coraggio di osare, restando fedeli alla propria storia».
Con la crisi del mercato tradizionale e il boom dello streaming, che premia i giovani, molti della sua generazione hanno smesso di pubblicare inediti: De Gregori, Venditti, Cocciante. C'è rassegnazione?
«Soprattutto da parte dei discografici. L'ho capito facendo il direttore artistico a Sanremo: Certi dischi non li produciamo più: non c'è mercato, mi spiegavano. È avvilente».
Quest'album quanto è costato?
«350 mila euro almeno. L'ho registrato con due orchestre e una ventina di musicisti, fatto a mano dalla prima all'ultima nota».
Un budget dispendioso di questi tempi, non trova?
«È vero. Quando registrai La vita è adesso spendemmo di più, l'equivalente di 500 mila euro».
Ma era l''85 e i dischi si vendevano: superò i 4 milioni di copie. Oggi sarebbe possibile una cosa del genere?
«No. Il fatto è che prima la musica veniva fruita con altre ritualità. Ai concerti sono diminuiti anche gli applausi, perché le mani sono occupate dai telefoni: si provano emozioni in differita».
I soldi chi ce li ha messi?
«L'etichetta. Io ad un certo punto della mia carriera non ho voluto più sapere niente delle spese. Rischi di finire come quel varietà di Falqui su un'immaginaria compagnia squattrinata: Bambole, non c'è una lira».
Le aspettative dei discografici devono essere alte. Dicono che lei sia molto pignolo in studio e che li faccia penare ogni volta che prepara un album, è vero?
«Fosse per me, il disco non uscirebbe mai. A 18 anni scrivevo tre canzoni al giorno. Oggi per decidere se in un testo ci va una preposizione articolata o semplice ci metto tre giorni. Stavolta di mezzo ci si è messa pure la pandemia: pensavo di non riuscire a chiuderlo, questo disco».
Questi 69 anni come se li sente addosso?
«Mi ricordo ancora quel giorno a casa con mio padre e mia madre, a Centocelle. Avevo 12 anni. Nel palazzo arrivò un'altra famiglia con un figlio di 19 anni, diplomato ragioniere: per me era già vecchio».
Ma a lei fa paura il tempo che passa?
«È un avversario micidiale. E vince sempre. Stiamo sempre lì a corrergli dietro: poi arriva il giorno in cui il tempo non ci sarà più».
Mattia Marzi
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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