Il 29 novembre di trent'anni fa, il Consiglio di Sicurezza dell'Onu approvò

Sabato 28 Novembre 2020
Il 29 novembre di trent'anni fa, il Consiglio di Sicurezza dell'Onu approvò la risoluzione 678 che legittimava l'intervento militare in Kuwait. Iniziava così un conto alla rovescia che si sarebbe concluso, ammesso che sia concluso, con la caduta di Saddam Hussein tredici anni dopo. Con il senno di poi, come sempre accade agli storici, il risultato può sembrare insoddisfacente. Ma all'epoca quella risoluzione era inevitabile, ed in effetti ebbe il consenso di quasi tutto il mondo, compreso quel che restava dell'Unione Sovietica.
I fatti. Il 2 agosto 1990 l'esercito iracheno aveva invaso il Kuwait, povero di abitanti ma ricco di petrolio. Saddam Hussein accampò i soliti pretesti dei dittatori, dietro i quali stavano l'ambizione del satrapo e l'enorme ricchezza del piccolo e inerme confinante. Il minuscolo esercito kuwaitiano si difese bene, ma dovette soccombere alle soverchianti forze dell'invasore. Per sovrapprezzo, Saddam Hussein prese in ostaggio vari civili occidentali presenti a Bagdad, proclamando che se ne sarebbe servito come scudi umani in caso di un attacco aereo. Il mondo ne fu sgomento: nessuno aveva immaginato un'operazione così fulminea e così spietata. Riavutisi dalla sorpresa, gli Sati Uniti reagirono con determinazione. Tollerare un simile sopruso nei confronti di un paese amico avrebbe significato un irrimediabile discredito per l'intero Occidente, un intollerabile arricchimento del già bellicoso dittatore iracheno e in prospettiva una grave minaccia per l'intero Medio Oriente e un conflitto con Israele.
IL CONSENSO
Il presidente Bush (senior) volle tuttavia il consenso delle Nazioni Unite, com'era avvenuto quaranta anni prima in Corea, pur sapendo che il peso maggiore, se non esclusivo, della guerra sarebbe caduto sui suoi soldati. Dopo le solite, mille esitazioni, l'Onu approvò la risoluzione 678: se l'Iraq non si fosse ritirata entro il 15 Gennaio, liberando gli ostaggi, sarebbe stata la guerra. Fu un gesto obbligato, perché altrimenti l'intera organizzazione si sarebbe rivelata tanto alta nei costi e quanto bassa nei risultati. Un sospetto che ancor oggi serpeggia, e con qualche buona ragione.
Alcuni Paesi arabi, timorosi delle mire di Saddam, si allearono con gli Usa. La Gran Bretagna diede il suo appoggio totale. L'Italia, con la consueta prudenza, forse condizionata dal pacifismo del Vaticano, esitò. Alla fine prevalse l'interesse nazionale, e anche noi mandammo un piccolo contingente di aviatori. Come per la Crimea quasi un secolo e mezzo prima, il nostro contributo militare fu modesto, ma il significato politico importante. L'America, dal canto suo era ancora condizionata dalla sconfitta in Vietnam, costata oltre cinquantamila morti e conclusasi con una precipitosa ritirata. La presidenza Carter, dopo il disastroso tentativo di liberare gli ostaggi sequestrati a Teheran da Khomeini aveva raggiunto l'apice del discredito, ma gli otto anni di Ronald Reagan avevano ridato al Paese orgoglio e fiducia. Tuttavia la prova del fuoco doveva ancora venire.
LA STRATEGIA
La dottrina e la strategia militare degli Usa erano state rivoluzionate, con un'efficace ammodernamento di mezzi e di tecnologie. Ma soprattutto era mutato l'umore degli americani, non più afflitti dalla sindrome di una guerra lontana, incompresa e perduta. Ora prevalevano l'indignazione per l'arroganza del satrapo e i timori di una crisi petrolifera. La solidarietà degli alleati e soprattutto del Regno Unito fu preziosa: il principe Carlo si presentò in divisa sul campo di battaglia.
A comandare la coalizione fu nominato un roccioso e capace ufficiale, dal nome significativamente tedesco, Norman Schwarzkopf, detto the bear (l'orso), sia per la stazza che per il carattere. Era favorito dal terreno: non più la giunga indocinese, ma una spianata desertica, l'ideale per i bombardieri e i blindati di cui ampiamente disponeva. Comunque il generale non volle correre rischi: adottò la strategia di Montgomery, ammassando una quantità enorme di truppe, la tattica di Guderian, sfondando con i corazzati, e l'astuzia di Annibale, fingendo uno sbarco che non avvenne mai.
ULTIMATUM
L'offensiva cominciò alla scadenza dell'ultimatum, la notte del 17 gennaio: i missili Cruise e gli aerei Stealth distrussero tutte le centrali di comando e controllo del nemico, coprendo il cielo di Bagdad con una tempesta pirotecnica che il mondo vide in diretta di Tv. Fu quello il momento degli inviati, da Peter Arnett a Christiane Amanpour, che tra un botto e l'altro commentarono l'uso delle bombe intelligenti, ordigni guidati dai laser che effettivamente selezionavano e distruggevano i bersagli senza troppi danni collaterali. Poi, per un mese, i giganteschi B52 affidabili reduci degli Anni 50 e ancora oggi in servizio - spianarono le linee irachene sotto un giornaliero diluvio di fuoco.
IL TERRENO
Preparato così il terreno, la mattina del 24 febbraio avanzarono le truppe di terra, con uno schieramento di corazzati quale mai si era visto dalla battaglia di Kursk. Gli Abrams americani e i Challenger inglesi fecero dei T72 iracheni quello che gli Chassepots avevano fatto a Mentana contro i garibaldini: una strage. Sadam Hussein capì che stava perdendo la guerra. La sua prima reazione era già stata vile quanto l'aggressione al piccolo paese confinante. Sperando di trascinare gli altri paesi arabi in un conflitto generale, aveva attaccato Israele con i missili a suo tempo fornitigli dalla Russia. Israele fu tentata di reagire, e forse la sua azione sarebbe stata ancora più severa di quella americana, ma fu dissuasa da Bush che inviò le batterie dei Patriot, avveniristici antimissili rivelatisi efficaci. Alcuni caddero su Tel Aviv, ma la capitale continuò a vivere normalmente. Ricordiamo con commossa riverenza Isaac Stern, mentre suona il concerto per violino di Beethoven con la maschera antigas appoggiata alla mentoliera.
A quel punto, disperato, Saddam Hussein incendiò i pozzi di petrolio, distruggendo ricchezze, inquinando i cieli, e spronando ancor di più le truppe della coalizione. Schwarzkopf distrusse in tre giorni quel che restava del vanaglorioso esercito iracheno, ma fu fermato alle porte di Bagdad. Bush opportunamente aveva deciso di lasciare il dittatore al potere, con una sovranità limitata, per non provocare un dissesto della regione, dove già fermentava l'estremismo islamico, che il laico Saddam aveva sempre combattuto. Dodici anni dopo suo figlio, George Jr. non fu altrettanto saggio. Per varie ragioni, compreso il timore che Saddam cercasse la rivincita costruendo armi di distruzione di massa, rinnovò l'attacco, entrò nella capitale, e depose il tiranno che fu successivamente impiccato dai suoi. Quel che ne seguì, è cronaca di oggi.
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