Da garzone a imprenditore con i suoi tabarri. L'Artigiana Sartoria Veneta di Mirano fattura 15 milioni di euro e ha 120 dipendenti

Lunedì 3 Agosto 2020 di Edoardo Pittalis
Da garzone a imprenditore con i suoi tabarri. L'Artigiana Sartoria Veneta di Mirano fattura 15 milioni di euro e ha 120 dipendenti
Forse è il solo nel Veneto che se lo chiami taja tabarri non se la prende. Uno dei pochissimi ai quali, anzi, piace essere definito taglia tabarri: lo fa da almeno cinquant'anni alla maniera antica e esporta in tutto il mondo. Ha pure inventato un termine per definire il luogo del suo lavoro: tabarrificio. L'Accademia della Crusca gli ha da poco comunicato che è stato inserito nel vocabolario.

Albano Sandro Zara, 79 anni, di Mirano, è orgoglioso della sua storia: «Partire da garzone e arrivare nelle capitali della moda». E anche del suo nome per il quale ha dovuto rivolgersi al Presidente della Repubblica: «Sono nato durante la guerra, mio papà era sul fronte albanese e per paura di non tornare aveva fatto promettere a mia madre che mi avrebbe chiamato Albano, anche se lei aveva scelto Sandro. Così sono stato battezzato come Sandro e registrato come Albano. Dopo la domanda al Presidente, adesso sono ufficialmente Albano Sandro Zara». Anche una passione per il tango: «Posso dirlo? Sono un grande ballerino».
Quattro figli tutti nel tessile: «Sono figli d'arte, con la polvere della lana addosso». Ora sono loro - Enrico, Francesca, Giovanni e Davide a mandare avanti l'azienda: «Ho diviso come una mela e si sono sentiti responsabilizzati. Questa è un'attività che è un lingotto, magari piccolo ma sempre d'oro, però devi gestirlo con passione. Adesso il mercato è a gomme sgonfie per tutti, piangono anche i giganti in questo momento, ma ho fiducia. Il paragone è con la bicicletta: puoi pedalare forte o piano, ma devi pedalare altrimenti cadi». 

L'Artigiana Sartoria Veneta di Mirano ha un fatturato di 15 milioni di euro, Tabarrificio compreso. Quaranta dipendenti, 120 con l'indotto. Esporta soprattutto in Giappone, ha un buon mercato a Londra, in Corea del Sud e negli Stati Uniti: «Apprezzano l'idea di comprare un prodotto italiano e fatto in Italia: ci stiamo battendo per la tracciabilità, con tessuti confezionati e prodotti qui. È questo il vero made in Italy».



Come è nata la passione per il tabarro?
«È una passione che mi ha preso da sempre. Nel 1972 ho organizzato un campionario ed è stato un insuccesso, tanta curiosità, ma nessuno comprava. La gente allora non ricordava la storia del tabarro, forse vedeva qualche vecchio che lo aveva ancora, ma era quasi simbolo di miseria. Dopo pochi anni ripresentai il mio tabarro al Pitti e fu un successo, ho venduto tutto. Da allora ogni anno ritorno a Firenze, oggi si vendono migliaia di capi. Uno dei clienti migliori era Lucio Dalla, li regalava agli amici. Vantiamo molti imitatori, come la Settimana Enigmistica».

È un capo difficile da realizzare?
«No, un buon artigiano è in grado di farlo, ma deve avere la cultura giusta. Per il tabarro ho studiato, scavato nel passato, tra i musei, nelle case. A chi mi portava un tabarro vecchio davo in cambio una giacca nuova e sono venuti molti ragazzi che avevano trovato il capo in soffitta. Un tempo chi poteva lo aveva a ruota intera, i più poveri a mezza ruota. Mio nonno che commerciava in cavalli ne aveva uno con la pelliccia e a ruota intera. C'è un verso di una canzone famosa, Signorinella pallida, quando ero ragazzino la cantava Achille Togliani: Io qui son diventato il buon Don Cesare/ Porto il mantello a ruota e fo il notaio. Era segno di benessere. Il tabarro usato nel film di Fellini Amarcord l'ho comprato da un rigattiere. L'ultima trasformazione del tabarro è venuta dopo la Rivoluzione Francese che ha fatto cadere fiocchi e decorazioni. La città che lo ha tenuto in piedi per più tempo è Venezia, dove non si doveva andare in auto e non c'erano carrozze. Qui è diventato nero contemporaneamente alle gondole dopo le pestilenze, era anche più facile da tingere. Il pastore l'ha sempre portato del colore grezzo della lana. Anche quello della Grande Guerra l'abbiamo fatto simile all'originale grigioverde, solo qualche centimetro più lungo perché gli italiani sono diventati più alti».

Una vita tra i tessuti? 
«Sono nato a Mirano quando c'era la guerra, ho conosciuto mio padre Giovanni che avevo cinque anni che per lui erano passati tra il fronte e la prigionia. Mamma Elena teneva stretta la famiglia, eravamo tre figli, Gianni più grande di me e Goretta che ha dieci anni di meno. Il nonno materno commerciava in bestiame, quello paterno in scope di saggina, allora Mirano era la capitale del mercato delle scope. I nonni li ho goduti a lungo, uno è morto che aveva quasi cent'anni per una caduta dalla bicicletta. Ricordo che a guerra finita di fronte a casa c'era una piccola radio locale, Radio Bastia, la conduceva Filiberto Cavestro assieme a un suonatore di violino e a un gruppo di signore che sapevano di greco e latino e recitavano poesie. Era un antifascista, uomo di grande cultura, mi dava lezioni perché io a scuola non ero certo una promessa. I preti venivano nella sua bottega a giocare a scacchi e così ho imparato. C'erano i neozelandesi dell'esercito di liberazione che regalavano ai bambini cioccolata e Am-lire».

La lana non era ancora entrata nella sua storia?
«Ho incominciato facendo il garzone nella bottega del casoin, portavo la spesa nelle case in bicicletta, un portabagagli dietro e uno davanti. Papà era amico d'infanzia di Alfonso Coin, gli disse che aveva un figlio che non brillava nello studio ma era sveglio. Dalla Coin sono passato al vecchio lanificio di Noale, dove sono entrato in contatto con la costruzione del tessuto. Però vendevo lane cardate nel boom dei pettinati e lane per materassi nel boom dei materassi a molle! C'era la Levis che cercava agenti e, dopo un colloquio che mi ha cambiato la vita, ho incominciato a lavorare per la fabbrica di jeans. Sono il più vecchio agente al mondo della Levis, ci lavoro ancora come distributore di accessori per tutta Italia».

I jeans sono stati la sua fortuna
«Capivo di aver trovato una miniera, non dormivo neanche la notte, dovevi tenere gli occhi spalancati specie a Trieste dove lavoravo con clienti apolidi, con tanti slavi che compravano, erano tutti comunisti ma volevano giustamente tutti i jeans. C'era chi improvvisava negozi enormi che venivano smontati nel giro di poche ore. Ho avuto fortuna a vendere sempre a chi pagava. C'era uno che aveva gli uffici dove un tempo aveva la sede la Gestapo e i triestini si tenevano alla larga. Guadagnavo così tanto che potevo anche dedicarmi alle mie passioni, col consenso della Levis e l'aiuto della famiglia e di un amico-socio. È stato allora che mi sono avvicinato al lanificio Cini del quale oggi ho il marchio e l'archivio che ci viene invidiato dai giapponesi. Devo ringraziare la polvere di lana che ho respirato, il filo di lana che mi ha arricchito, assieme al filo di cotone della Levis».

È stato difficile fare impresa?
«Fare impresa è un'impresa, oggi più che mai. È difficile trovare un tagliatore, è difficile trovare personale con una preparazione adeguata, anche giovani disposti a lavorare in un laboratorio. Il rischio è che scompaia una cultura del lavoro. Prima c'erano le scuole professionali, c'erano conventi che sfornavano sarte: oggi spesso questo lavoro non viene fatto in Italia ma fuori e non sempre con la qualità che occorre. Ho sempre fatto cose controcorrente, il mio successo è che faccio moda con l'archivio di capi costruiti a suo tempo, non c'è niente da inventare, nella moda non esistono maghi. Sono pezzi di storia attualizzati. Se vuoi puoi chiamarlo stilismo!». 
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