Serenissima Repubblica, quando i caffè vennero vietati alle donne: erano luoghi di incontro e libertinaggio

Mercoledì 25 Gennaio 2023
Serenissima, quando vietarono i caffè alle donne

La ricerca di Sandra Stocchetto nelle “botteghe” della Serenissima fa emergere una grande diffusione di locali diventati luoghi di degustazione, ma anche ritrovi sociali e di costume, ma soprattutto ambienti di ampio libertinaggio tanto che si decise di vietare l’accesso al gentil sesso, ma poi a furor di popolo e di avventori la Repubblica dovette cambiare idea.

Sapete quante chicchere di caffè si bevevano ogni anno a Venezia verso metà Settecento? Domanda retorica: no che non lo sapete, a meno che non abbiate già letto il libro di Sandra Stocchetto, Il negozio del caffè della Serenissima, edito da Ytali (dove negozio sta per commercio e non per bottega). È stata lei a fare questo calcolo: ogni anno Venezia importava in libbre l'equivalente di 400 mila tonnellate di caffè, il che equivale a 28 milioni di tazzine, ovvero dieci tazzine a testa per i circa 2 milioni e 800 mila della repubblica, dal conto vanno però esclusi i bambini e gli abitanti dello Stato da Mar, che non rientrano in questa statistica.

Il 75 per cento del caffè importato attraverso il porto di Venezia veniva ri-esportato verso lo Stato da Terra. Le importazioni cominciano a crescere velocemente a partire dal 1730 quando al cosiddetto caffè di Alessandria, proveniente dallo Yemen, si affianca il caffè coloniale, prodotto nelle piantagioni francesi d'oltremare che si vende a un prezzo due-tre volte inferiore rispetto a quello arabo. Tanto per dare un'idea dell'importanza di questo negozio, nel 1744 la fiscalità sul caffè rappresentava il 50 per cento delle entrate di tutto il commercio del Levante.


LE ORIGINI
Le prime botteghe da caffè aprono a Venezia probabilmente verso la fine del Seicento (la data del 1645, citata da Giuseppe Tassini non ha trovato riscontro nei documenti d'archivio, possibile che il primo fosse stato All'Arabo, nel 1683). Nella seconda metà del Settecento si contano 588 botteghe da caffè: 303 nella Terraferma e 285 nella Dominante, cioè una ogni 460 abitanti, e potrebbe trattarsi del record europeo. Nella sola piazza San Marco se ne affacciano 38, altre 18 si trovano sotto i portici di Rialto. Il 29 dicembre 1720 apre il caffè Alla Venezia Trionfante, poi ribattezzato Florian a furor di cliente. Tutti dicevano «'ndemo da Florian» e così il nome del proprietario, Floriano Francesconi, è rimasto appiccicato al locale. Nel 1775, quasi di fronte, Giorgio Quadri, greco di Corfù, apre l'omonimo caffè assieme alla moglie Naxina. Il Quadri era famoso per la semada, una bibita dissetante a base di semi d'anguria, mandorle e zucchero. Non c'è dubbio che Venezia in quegli anni fosse la capitale europea del caffè. A metà Settecento nello Stato da Terra al secondo posto si piazzava Padova, con 38 caffè (ma nel 1787 crescono a 77), seguita da Verona con 37, Bergamo 31, Vicenza 25, Brescia 23, Crema 16, Udine 11. Quattro caffè della Terraferma erano gestiti da donne, probabilmente vedove subentrate al marito defunto, come accade nella Locandiera, di Carlo Goldoni, ecco i loro nomi: Margarita Mariani e Maddalena Todeschini di Verona, Margarita Campagnola Tonca di Torri di Cittadella, Santina Carrari di Teolo.


GOLDONI DOCET
A proposito di Goldoni: una delle sue più importanti commedie si intitola La bottega del caffè (1750), dove spiega come vada il mondo: «Quando si pare una bottega nuova», spiega il cameriere Trappola, «si fa il caffè perfetto. Dopo sei mesi al più, acqua calda e brodo lungo». Né più né meno di quel che accade oggi, quando nella polvere per l'espresso si accresce la proporzione dell'economico e qualitativamente scarso robusta rispetto al migliore e più costoso arabica. Caffè che, comunque, si preparava con il metodo che ai nostri giorni chiamiamo alla turca. Le varie caffettiere ancora non erano state inventate (la napoletana è del 1819) e quindi il caffè si faceva col pentolino, scaldando l'acqua sulla brace e mettendoci la miscela polverizzata. In un'altra commedia, La sposa persiana (1753) Carlo Goldoni illustra quale sia la procedura per il caffè perfetto: versare la polvere, quindi «far sollevar la spuma, poi abbassarla a un tratto, sei, sette volte almeno, il caffè è presto fatto».


LUOGHI SOCIALI
Sarebbe sbagliato pensare che al Caffè si andasse soltanto per bere il caffè. Intanto si entrava nelle botteghe d'inverno per scaldarsi, visto che soltanto i più ricchi potevano permettersi la legna da ardere per i caminetti. Ma poi ci si andava per discutere, come dice Goldoni, il caffè diventa «una vera enciclopedia all'occasione, tanto è universalissima la serie delle cose sulle quali accade di ragionare». Il nemico giurato di Goldoni, l'abate Pietro Chiari si ritrova, suo malgrado, d'accordo con il commediografo: «Quando io entro in qualcuno de' più rinomati caffè, parmi d'entrare in un emporio d'Europa da tutte frequentato le più colte nazioni del mondo». Nei caffè si fanno i giornali: la redazione della Gazzetta veneta di Gasparo Gozzi si riunisce nei locali del Florian. Non c'è nulla che lo attesti, ma forse il primato di Venezia nei caffè, si rispecchia anche nel giornalismo: verso la fine del Settecento sono censite in Italia 803 pubblicazioni periodiche, il 30 per cento di queste, cioè 240, escono nel territorio della Serenissima repubblica, il 20 per cento nel ducato di Milano, il 13 per cento nello stato pontificio.


SPAZI LIBERTINI
Ovviamente nel secolo del libertinismo i caffè diventano luoghi di libertinaggio. Nel 1766 una relazione di Giovanni Battista Manuzzi, informatore degli inquisitori di Stato (undici anni prima proprio le sue riferte avevano fatto finire Giacomo Casanova nelle celle dei piombi) scrive che il caffè all'insegna dell'Arco Celeste, sotto le Procuratie vecchie, è frequentato da alcune signore dissolute, fra le quali una tale contessa Romiti. «In una delle scorse sere la gente faceva circolo in piazza attorno la detta Romiti per essere la stessa tutta scoperta il petto di modo che fu in necessità da tanti che si affollavano per vederla» (un fatto analogo accade sul fare degli anni venti del Novecento, quando la marchesa Luisa Casati Stampa si sfila la pelliccia all'interno del caffè Florian rimanendo in piedi completamente nuda). Forse non del tutto casualmente, un anno dopo, nel 1767, viene proibito alle donne di entrare nei caffè. Si stabilisce «di voler risolutamente che per gradi sia frenato il vivere troppo libero e licenzioso delle femmine nostre, cosa che sradica il buon costume senza il quale divengono inutili e sprezzate anco le piuimportanti leggi d'una Repubblica» e si chiudono le porte dei caffè alle donne di tutti i ceti. La proibizione non resiste molto, dev'essere ritirata dopo pochi anni a furor d'avventori, ma dura a sufficienza perché il patrizio Angelo Maria Labia, scriva in una delle sue poesie satiriche: «Ziogo e lusso spuar ne fa i polmoni,/ la religion xe andada in precipizio;/ e i cafè fe' serar? oh che cogioni!».

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