Venezia e le sue monete, 500 anni fa venne coniata la osela. E sapete una curiosità? Aveva davvero a che fare con le anatre

Martedì 29 Giugno 2021 di Bruno Buratti
Venezia e le sue monete, 500 anni fa venne coniata la osela

Cinquecento anni fa la Zecca della Serenissima coniò per la prima volta la speciale moneta che andava a sostituire il tradizionale omaggio di cacciagione che ogni Natale il Doge riservava ai membri del Maggior Consiglio. Raggiungerà il valore di 78 soldi nel 1714. Un racconto per immagini della lunga storia della Repubblica, con curiosità e retroscena.

La storia di Venezia è profondamente legata, sin dalle origini, a quella della laguna. Formidabile rifugio agli albori e poi base di partenza per la proiezione marittima nel medioevo, essa ha costituito un formidabile fattore di protezione della città, impedendo nei secoli il passaggio a qualsiasi forza ostile, al punto da non rendere necessaria l'erezione di una cinta muraria, se non per proteggere l'arsenale ed i suoi segreti. Tra le molte tradizioni che traggono origine dai rapporti con l'ambiente lagunare, una delle più caratteristiche è certamente costituita dalle oselle, speciali monete medaglie la cui coniazione fu avviata dalla zecca di Venezia esattamente 500 anni orsono, per effetto di una decisione assunta dal Maggior Consiglio il 28 giugno 1521, e proseguirà ininterrotta fino alla caduta della Repubblica, costituendo una testimonianza unica della storia non solo della moneta, ma della città di Venezia.


Per antica consuetudine, regolamentata con decreto del 1275, nel dicembre di ogni anno, in occasione del Natale, il doge faceva dono ad ogni componente del Maggior Consiglio di cinque osèle salvàdeghe dai pié rossi, ossia anatre selvatiche, provenienti dalla laguna di Marano, situata nella parte più settentrionale dell'Alto Adriatico, di cui la Repubblica godeva l'usufrutto. Ben presto però, complice l'entità numerica del massimo organo politico della Repubblica, che crescerà sino a superare le 2.500 unità, i preziosi pennuti iniziarono a scarseggiare, per cui il donativo venne ridotto a due volatili, di diverse dimensioni, da cui il detto un grasso e un magro come i osei de Maràn. Venuta quindi a mancare la selvaggina, il donativo viene sostituito a partire, appunto, dal 1521 da una moneta medaglia d'argento, che prenderà il nome di osela in ossequio alla sua origine: in luogo degli uccelli che cadaun gentilomo nostro aver suole dal Principe, per l'avvenire aver debba una moneta della forma che parerà alla Signoria nostra che sia di valuta di un quarto di ducato...

da essere distribuita alli nobili nel tempo, modo e forma come osservare solevasi nella dispensazione degli uccelli. Così la proposta approvata dal Maggior Consiglio a larghissima maggioranza, all'indomani delle solenni esequie del doge Leonardo Loredan, celebrate il 25 giugno 1521. Come precisa Alvise Zorzi in un suo saggio, benché l'usanza del dono degli uccelli avesse fine in quell'anno, anche prima il principe era autorizzato a sostituirlo con dodici grossi (monete d'argento) oppure, più tardi, con trentadue soldi, che oggi chiameremmo schei de mona, ossia moneta spicciola, e sarà proprio questo il valore conferito alle prime oselle d'argento, che crescerà fino a raggiungere, nel 1734, i settantotto soldi.


CIRCOLAZIONE
La possibilità di immetterle in circolazione secondo un valore ufficialmente riconosciuto consente di classificarle come monete, ma la loro limitata e privilegiata destinazione, quale omaggio dogale agli esponenti del Maggior Consiglio, unitamente alla funzione celebrativa del principe o commemorativa di eventi occorsi sotto il suo mandato, che progressivamente assumeranno, le fa al contempo assimilare a medaglie.
Di certo, costituiscono una importante testimonianza della storia della Serenissima, che consente di misurare come nel tempo sia mutata l'attenzione nel conferirgli una funzione di propaganda che, uscendo dallo stereotipo delle monete vere e proprie, consentiva una libertà espressiva nella composizione della raffigurazione, tale da far percepire non solo l'importanza politica di determinati accadimenti storici, ma finanche il carattere del principe che se ne faceva interprete. Era un distacco dalla tradizione monetale del medioevo, basata sulla ripetizione seriale degli stessi segni, eretti a simbolo dello stato. Nella più nota delle monete veneziane, lo zecchino, o ducato d'oro, largamente diffuso nei commerci (il dollaro, o euro, dell'epoca) e coniato a partire dal 1285, l'iconografia resterà sostanzialmente la stessa per oltre 500 anni: San Marco che porge il vessillo di Venezia al doge inginocchiato, sul dritto, e Cristo benedicente racchiuso in una mandorla cosparsa di stelle, sul rovescio. Unica variante, tra una coniazione e l'altra, il nome del doge.
L'osella manterrà invece una uniformità del registro iconografico solo sul dritto, con la tradizionale immagine del doge inginocchiato dinanzi a San Marco, seppur progressivamente più curata e con alcune varianti sullo sfondo. Il rovescio invece, dopo un avvio seriale con il campo occupato dalla scritta principis munus (dono del principe), preceduta dal nome del doge e seguita dal numero romano progressivo del dogado, che sarà mantenuto fino al 1575 (unica eccezione il ricordo della battaglia di Lepanto nel 1571), inizierà a riportare in seguito le più varie raffigurazioni, volte a sottolineare eventi significativi per la storia della Repubblica. L'eleganza del disegno, unitamente alla forza delle immagini, costituiscono un recupero della tradizione classica della monetazione greca e romana.


L'OFFERTA
Spetterà ad Alvise I Mocenigo avviare nel 1576 questo dialogo per immagini, in occasione di un evento di grandissimo impatto: l'offerta votiva al redentore, con la raffigurazione di un tempio ornato di statue e colonne, a ricordo della promessa di erigere una chiesa quale ringraziamento per la liberazione di Venezia dalla pestilenza, ripresa anche l'anno successivo con una bellissima veduta della città sormontata dall'immagine del Creatore a braccia aperte. Alcune figure torneranno ricorrenti, come quella di San Giuseppe, le tre croci, oppure il leone alato rampante, ma sarà il conflitto con il turco a farla da padrone, a partire dalla guerra di Candia, simboleggiata nel 1645 sotto Francesco Molin da una galera in navigazione nel mare in tempesta, con una fiamma rappresentante la protezione divina. I maggiori riferimenti alla gloria del principe sono naturalmente ascrivibili a Francesco Morosini, le cui gesta gloriose sono nei suoi sei anni di dogado accompagnati da immagini di armi, dello stocco donatogli dal Papa, del busto erettogli dal Senato e di una liberazione del Peloponneso che riprende tipi chiaramente riconducibili agli imperatori romani. La serie si chiuderà nel 1796 con il ritorno di Ludovico Manin alla semplice scritta principis munus: non vi sono più glorie da celebrare, ormai, ed il tremendo zorno dell'anno successivo porrà fine non solo alla coniazione delle oselle, ma anche alla storia ultramillenaria della Serenissima.

Ultimo aggiornamento: 08:19 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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