Quei "soldati" in Veneto autorizzati dai boss a dire: «Siamo casalesi»

La testimonianza a processo dell'ex capo Schiavone. Il "brand" utilizzato per intimidire

Venerdì 16 Dicembre 2022
Al centro il boss Donadio
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VENEZIA - «Non conosco personalmente Luciano Donadio e Raffaele Buonanno.

Noi avevamo referenti a disposizione nelle varie zone d'Italia e per la zona di Venezia c'era Michele Coppola e i cugini Cesare e Augusto Bianco che erano nostri affiliati». Affiliati e referenti in Veneto che, pronti a muoversi a ogni schioccare di dita da parte dei boss di Casal di Principe, in cambio potevano sfruttare il brand casalesi a loro piacimento. Una prassi emersa più volte nelle carte dell'inchiesta e nelle pieghe del processo a Luciano Donadio - presunto capo dei casalesi a Eraclea - e a tutto il suo clan. Quando c'era da intimidire, da far rigare dritto qualcuno eccola la frase, «Siamo casalesi», pronunciata in cambio di una devozione totale, a dimostrare in via indiretta anche quanto sostenuto dai pm Roberto Terzo e Federica Baccaglini: che la mafia, in Veneto, era (è) presente.


LA STRUTTURA
È Nicola Schiavone, ex reggente del clan Schiavone-Bidognetti dal 2004 fino al suo arresto nel 2010, a raccontare come si muovevano i tentacoli dei casalesi in Veneto e sul litorale. Lui - figlio di Francesco Schiavone, detto Sandokan, fondatore della famiglia Schiavone dei casalesi - dal 2018 è un collaboratore di giustizia e ieri era testimone citato dalle difese nel dibattimento sulla mafia a Eraclea. Nella sua carrellata, Schiavone ha ridisegnato la piramide gerarchica del clan in Veneto, fotocopia di quanto avviene in ogni radicamento al di fuori della provincia di Caserta. «Noi - ha detto collegato in videoconferenza, di spalle e da un luogo protetto - avevamo due tipi di cellule, quelle dirette con affiliati che mandavamo noi sul territorio da Casal di Principe e quelle indirette con gente immigrata al nord, che faceva riferimento a noi con obblighi mensili e con il dovere di mettersi a disposizione quando andavamo al nord, visto che loro potevano sfruttare il nostro nome».


NON LO CONOSCO
Ma di Donadio Nicola Schiavone ha più volte detto di non averne mai sentito parlare e di non averlo mai incontrato: «non è che il capo sa tutti i nomi degli affiliati - ha spiegato al tribunale - Sono circa cinquecento, noi abbiamo dei referenti in zona e sappiamo di poterci appoggiare a loro». In Veneto, quindi anche sul litorale (anche se Schiavone non ha mai parlato di Eraclea), i ganci erano i cugini Bianco. «Mi è stato riferito dai cugini Bianco che se fosse occorso potevo contare su di loro per operazioni in Veneto ma io non me ne sono mai interessato e non mi è occorso». E ancora: «Se un nostro gruppo referente mette qualcuno fuori regione non è obbligato a dirmelo fino a quando non si creano problemi e non c'è bisogno dell'intervento del capo - ha precisato il figlio di Sandokan - Nei Casalesi c'è sempre stata questa libertà: io sapevo solo che per interessi in Veneto dovevo chiamare i Bianco e loro si sarebbero attivati. Noi capi non siamo obbligati a sapere tutto. Donadio? Non c'era dipendenza diretta da me, non ho mai parlato con questa persona». A raccontare dei legami di Donadio con i cugini Bianco era stato il collaboratore di giustizia, Franco Bianco, che dal 1998 si era trasferito da Casal di Principe in Veneto per lavorare nel settore dell'edilizia e fu costretto a chiedere aiuto per delle difficoltà economiche. «A detta di Basile, Donadio faceva regali a Augusto e Cesare Bianco», aveva riferito al tribunale.


LA DEVOZIONE
Per sfruttare il brand casalesi, i referenti si mettevano a disposizione in tutto:« investimenti, latitanza, assunzione di affiliati - ha puntualizzato Schiavone - Sono cose che fanno parte dei piaceri che chi orbita nel clan fa: procurare armi, dare appoggio al nostro gruppo di fuoco se avevamo dei nemici. Insomma, appoggi a 360 gradi.
 

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