Il primo marzo è il Capodanno veneto, il «bati marso»: le origini di una delle più sorprendenti tradizioni della Serenissima

Il 1° marzo iniziava il calendario della Repubblica di Venezia, una ricorrenza che viene ancora ricordata in alcune aree del Nordest, dalla Valle dell’Agno sull’altopiano di Asiago fino alle pendici della Pedemontana e in Friuli

Venerdì 1 Marzo 2024 di Adriano Favaro
Capodanno a Venezia

«Ma tu da piccolo, tra gli anni ’50 e ’60 diciamo, sei mai andato a “bàtar marso”? Non so di cosa tu stia parlando: sono nato a Chirignago – allora si diceva Cirignago ed era campagna di Mestre – ma non ho mai sentito una cosa simile». Il nostro amico Rolando si muove verso gli ottanta, è stato dirigente in una grande azienda di Marghera ma pare cadere dalle nuvole quando gli si propone, per scherzo, di festeggiare il Nuovo Anno domani, venerdì 1. marzo. E di conseguenza di celebrare il cosiddetto “Bati marso” ovvero l’andare in giro per le strade con pentole, coperchi e altri strumenti musicali fatti in casa battendoli e facendo una gran confusione. Un uso che ha radici antichissime a scanso di equivoci venetisti (che peraltro si scambiano gli auguri con affetto e ricordo). Ma adesso è “rito” quasi scomparso negli ultimi decenni dal Veneto, terra non più legata al capodanno del calendario “More Veneto”. Cioè del calendario secondo il costume veneto, in uso nella Serenissima fino alla caduta della Repubblica nel 1797, che, appunto faceva cominciare l’anno il primo giorno di marzo (anche se comunque seguiva il calendario gregoriano). Per essere precisi le date dei documenti veneziani, qualunque essi siano, riportavano la frase “more veneto” vicino alla data: il 15 febbraio 1723 more veneto oppure “m.v.” abbreviato, corrispondeva alla data generale del 15 febbraio 1724.

Il 1724 nella Serenissima sarebbe cominciato solo il mese dopo. Febbraio era l’ultimo mese dell’anno, nome che deriva dal latino “februa”, mese della purificazione dell’individuo dalla malattia, febbre appunto.

Una tradizione effervescente

Lasciando però da parte il sentimento storico-nostalgico di alcuni gruppi e a ricordare “glorie del nostro leon” - celebrare il primo marzo come capodanno è stato un fenomeno ultrasecolare che rimane ormai presente solo a macchia di leopardo nelle province del Veneto e nel resto del Nordest. I segni più visibili sono senz’altro quelli della vicentina valle del fiume Agno dove la tradizione prevede di fare “Fora Febraro” con tremendi botti facendo scoppiare, in tubi di metallo, l’acetilene prodotto dall’unione di carburo di calcio con l’acqua. Azione a volte così effervescente e pericolosa che da tempo sono intervenute ordinanze dei sindaci per vietarla; spesso inutilmente. La tradizione rumorosa (o esplosiva) sopravvive ancora in zone della pedemontana berica, in aree del Trevigiano, nel Bassanese, sull’altopiano di Asiago e nel Padovano, oltre che in Friuli e nel Trentino. Ache il nome cambia, ma la sostanza no.

Dai romani ai veneti

Poiché le radici di questa tradizione primaverile non hanno alcun imprimatur veneto o friulano ma affondano direttamente nel mondo preistorico resta importante capire le origini di un passaggio di stagione. I romani che facevano partire l’anno nuovo dal primo giorno di marzo il 14 dello stesso mese usavano scacciare con pertiche bianche dalla città un uomo vestito di pelli che veniva chiamato “Mamurio Viturio”. Cioè il vecchio Marte, (che è divinità che nasce come protettrice della vegetazione) quello dell’anno precedente. Un capro espiatorio umano, come ricorda ne “Il ramo d’oro” l’antropologo J.G. Frazer che assomiglia molto all’antica usanza slava di “scacciare la morte”. L’interminabile conflitto inverno-estate si vede anche nella tribolata e incerta (storicamente) vicenda di Santa Lucia celebrata il 13 dicembre a cui era legato il “giorno più corto che ci sia”: una situazione che non esiste più da quando Papa Gregorio eliminò, nel 1582 i giorni dal 6 al 12 ottobre per superare il ritardo accumulatosi da quando c’era stata all’ultima grande riforma del calendario. Quella di Giulio Cesare nel 46 a.C. che dedica il primo giorno dell’anno al dio Giano, divinità a guardia delle porte, e non più a Marte. Ma Cesare dovette mettere ordine a calendari che avevano dieci mesi (settembre, ottobre, novembre e dicembre stanno per 7-8-9-10) più altri due, con mesi dai giorni variabili, in attesa della primavera. In questa millenaria altalena di anni che cambiano durata e mesi-fisarmonica è interessante sapere che anche santa Lucia (latino lux) – è un simbolo di luce, prima del 1300 i dipinti la rappresentavano con una lampada e non con gli occhi nel piattino. «A Verona – scrive Duccio Balestracci, nel suo saggio “Attraversando l’anno. Natura, stagioni, riti”, uscito di recente per Il Mulino – la notte più lunga era detta la “notte dei campanellini” fatti suonare dai ragazzi per le strade, come anticamente si usava in Spagna; e campanelli di ceramica sono il simbolo della festa per la santa a Siena. Ed era Santa Lucia, con san Nicola, a portare i doni; Babbo Natale è, con una facile battuta, invenzione della Coca Cola… Rumori, luci, cibo, invocazioni di forze che devono sconfiggere le zone buie, l’oltretomba. Il passaggio alla stagione tiepida è faticoso e segna ogni area di cultura mediterranea tanto che Osiride, Tammuz, Adone, Attis, sono le figure che impersonificano un dio - dall’Egitto all’Asia Occidentale - che deve morire perché possa risorgere una nuova vita.

Capodanni in giro per il mondo

E non si deve per questo far finta di non sapere che anche i Sumeri (5 mila anni fa) al loro dio Tammuz, che muore per dare vita, dedicano suoni e rumori. Del resto quella del “capodanno veneto” non è l’unico: quello cinese, diffuso in parte dell’Asia, corrisponde al novilunio che cade fra il 21 gennaio e il 19 febbraio; i tibetani cambiano data fra gennaio e marzo; in Indocina è a metà aprile, ma in data mobile, come è mobile quello musulmano (quest’anno a metà luglio). Stessa storia per quello ebraico che si celebra sempre tra settembre e ottobre, ma secondo date diverse. Tra rumori, scoppi, confusioni e scambi di sicuro resta l’etimologia della parola “mese” viene dal lemma indoeuropeo *mens, che indica il ciclo della luna, non quello del sole. In fondo in fondo tanta differenza nel calendario è venuta proprio dai due mesi di durata diversa: del sole e della luna.

Ultimo aggiornamento: 2 Marzo, 14:56 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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