Quella latteria sociale aperta grazie al don nel 1872 a Canale d'Agordo

Mercoledì 24 Giugno 2020 di Alessandro Marzo Magno
Quella latteria sociale aperta grazie al don nel 1872 a Canale d'Agordo
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L'evoluzione delle latterie sociali nel libro di Danilo Gasparini, docente di Storia del cibo e dell'agricoltura all'università di Padova. Dalla prima realtà aperta nel 1872 a Canale d'Agordo e voluta da don Antonio Della Lucia, il prete agronomo che affiancava il catechismo agrario a quello ecclesiastico, fino al momento di massima espansione avuto negli anni Cinquanta del Novecento.


La data è una di quelle che contano: nel 1872 apre a Canale d'Agordo, nel bellunese, la prima latteria sociale del Veneto, è anche una delle prime in Italia (il primato va a quella di Baveno, in Piemonte, nel 1868). Il movimento che porta alle latterie sociali era partito nel mondo tedesco: Svizzera, Germania, Austria-Ungheria; nel confinante Trentino, al tempo asburgico, si era cominciato già da un ventennio, nel 1852. Le latterie sociali, comunque, arriveranno a essere il fulcro attorno al quale ruoterà tutto il mondo contadino montano. Veri e propri salvadanai, come saranno definite. Questo, e molto altro, racconta Danilo Gasparini, professore di Storia del cibo e dell'agricoltura all'università di Padova, nel suo libro Dalla campagna alla tavola, edito da Cierre.

LA STORIA
Fino alla seconda metà dell'Ottocento ogni casaro faceva a modo suo, e non sempre bene, tanto che esisteva un formaggio chiamato lasorte, nel senso di «se va, va». Altra cosa di cui noi oggi non ci rendiamo conto è che c'erano molti più ovini che bovini: i due terzi del latte munto era di pecora, per 40 vacche c'erano 200 pecore. Ogni autunno transumavano dall'altopiano di Asiago verso le valli dell'Adige e del Po ben 150 mila pecore e questo stava all'origine degli un tempo celebri, e oggi dimenticati, pecorini di Padova e Rovigo. Soltanto nei primi decenni del Novecento comincia la produzione di formaggi di solo latte vaccino. I contadini guadagnavano con i cereali, mais soprattutto, e tenere campi a foraggio avrebbe compromesso la loro sopravvivenza.

La latteria di Canale d'Agordo è stata voluta da don Antonio Della Lucia (a lui è oggi dedicato l'istituto agrario di Feltre): il religioso si inseriva nel filone dei preti agronomi che affiancavano il catechismo agrario a quello ecclesiastico, come per esempio don Melchiorre Spada, parroco di Fossalunga di Vedelago (Treviso), negli anni 70-80 del Settecento. «Quando le viti si ammalarono di peronospora», spiega Gasparini, «i contadini andarono da lui chiedendogli di benedirle, lui rispose: Sì, io ve le benedico, ma poi voi date il verderame!».

LA SOPRAVVIVENZA
Dopo l'Agordino, vengono le latterie di Cison di Valmarino e Soligo (1882) e Bressanvido (1888). Il decennio 1880 è terrificante in Veneto: si raggiungono gli apici della pellagra e dell'emigrazione, una piccola glaciazione causa inondazioni e provoca una serie di cattivi raccolti, in un sistema agrario vittima di una fortissima pressione demografica, a stento in grado di garantire la sopravvivenza.

L'alternativa costituita dalle latterie è una specie di manna dal cielo, tra l'altro sono anche gli anni nei quali si diffonde la pastorizzazione, messa a punto nel 1862 da Louis Pasteur. Alle latterie sociali si affiancano le latterie turnarie, altro grande successo, dove chi conferiva il latte poteva, a turno, lavorare il latte munto in un giorno e tenersi i prodotti. E infatti una relazione scrive: «La popolazione agricola, dapprima diffidente, ora si è convinta e il latte è diventato la loro principale forma di introito».

Le latterie, oltre a salvare i contadini, innescano cambiamenti molto profondi. Per esempio portano all'incremento dell'allevamento bovino e alla diminuzione di quello ovino, oppure all'apertura delle scuole la prima a Schio per futuri casari. Comunque le cose stanno in maniera del tutto diversa da quello che potremmo pensare: per esempio, non si facevano formaggi tipici. Gasparini spiega che le latterie sociali si dedicavano all'imitazione: vincevano concorsi con formaggi «uso sbrinz», «uso emmenthal», «uso gorgonzola». E anche sul morlacco c'è da smentire qualche leggenda: non è affatto vero, come si racconta, che a introdurne la produzione sul Grappa siano stati alcuni casari provenienti dall'Istria. Molto più semplicemente a Venezia, fin dal Trecento, si vendeva formaggio importato dalla regione dei morlacchi, ovvero l'entroterra dalmata; tra le varie imitazioni, si è diffusa anche quella del formaggio «uso della morlacchia». Pure il morlacco, quindi, in origine non era nient'altro che un'imitazione. Le grandi produzioni di asiago e montasio sono arrivate soltanto negli anni Sessanta e coprivano l'85% di tutti i formaggi di Veneto e Friuli Venezia Giulia.

LE NOVITÀ
Altro effetto è stato l'introduzione di nuove razze bovine più produttive: si è abbandonata la grigia alpina a favore della frisona e della pezzata nera. Nell'anteguerra c'erano 15 mila vacche di razza burlina, che davano il latte usato per il morlacco, oggi ne sono rimaste soltanto 500, ma una frisona dà 50-60 litri di latte al giorno, una burlina se arriva a 20 è tanto. Gran parte della produzione della latterie sociali era indirizzata al burro, che era un prodotto costoso, e quindi garantiva margini più alti, ma se si utilizza la panna per fare il burro, non ne rimane per fare il formaggio e quindi la qualità andava a farsi benedire.
Il momento di massima espansione delle latterie sociali sono stati gli anni 50 del Novecento: 620 nella provincia di Udine (che al tempo comprendeva pure Pordenone), 585 Trento, 328 Vicenza, 315 Belluno, 190 Verona, 47 Treviso, 35 Venezia, 19 Padova, 13 Rovigo. Era chiaramente un fenomeno legato alla montagna e le latterie di pianura vicine alle città, come Venezia o Padova, si occupavano soprattutto di rifornire di latte fresco i centri urbani. 

LA MODERNITÀ
Negli anni Settanta molte latterie sociali sono state chiuse poiché si favorivano le grandi concentrazioni. «Oggi qualche piccolo segnale di ripresa lo abbiamo», osserva Gasparini, «grazie anche ad alcuni operatori commerciali, come la Valsana di Conegliano, che privilegiano la qualità e che fanno un lavoro di ricerca dei prodotti del territorio». Così, oltre alle ex latterie sociali trasformate in musei, ce ne sono altre che si sono rimesse in moto, come per esempio Lentiai, di recente ristrutturata, nonostante la difficile vicinanza al colosso Lattebusche. «C'è un ritorno all'arte casearia», spiega Gasparini, «e pure una ripresa della malgazione. Il formaggio a latte crudo è stato messo in crisi dalla mancanza di norme igieniche e molte malghe sono state chiuse. Ora invece abbiamo una ritorno delle produzione e anche del turismo caseario, di persone che vanno a vedere come si fa il formaggio. Accanto al prosecco ci vuole un buon formaggio di malga». Danilo Gasparini, per chi non lo sapesse, vive dalle parti di Valdobbiadene, le sue affermazioni, quindi, sono da ritenersi assolutamente docg.
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