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L'INTERVISTA
Ritratto del perfetto gregario. Nel ciclismo il gregario è

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Lunedì 23 Novembre 2020
L'INTERVISTA
Ritratto del perfetto gregario. Nel ciclismo il gregario è il soldato che deve aiutare il suo capitano e lui i suoi capitani li ha fatti sempre vincere: al Giro d'Italia, al Tour e, quando ha vestito la maglia azzurra, ha spinto al traguardo anche quattro campioni del mondo.
Matteo Tosatto, 46 anni, di Castelfranco Veneto, è un gregario speciale: oltre a portare la borraccia, ha vinto tappe al Giro e al Tour, ha vestito la maglia rosa. E vanta un record: nella storia del ciclismo mondiale è quello che corso più Grandi Giri, ben 34. Ha lasciato le gare nel 2016, a 42 anni; ora è direttore sportivo di una squadra di campioni. Non ha sbagliato mestiere.
È nato gregario?
«Nella mia testa sono sempre stato uno che poteva vincere le corse, poi c'erano Petacchi, Bettini e Cipollini non era proprio facile. Era il mio lavoro quello di mettere in sicurezza il capitano. Sono durato 20 anni perché ero un grande gregario, me lo hanno sempre riconosciuto. Era un mestiere difficile, si hanno molte responsabilità, devi tenere il capitano davanti, proteggerlo dagli imprevisti».
Quando ha incominciato a correre?
«A 9 anni col Postumia. Mio padre Franco aveva sempre fatto l'operaio, compiva gli anni quando c'era il Giro d'Italia e per lui era una specie di doppia festa. Mia madre lavorava nel bar di famiglia, La Bella Venezia, vicino alla stazione di Castelfranco. Il gruppo sportivo Postumia aveva fissato la sede della squadra nel bar e mio padre aveva chiesto in cambio solo un paio di pantaloncini e una maglietta per me. In un magazzino aveva trovato una vecchia bicicletta da corsa. Presidente del gruppo sportivo era Orfeo Antonello che adesso è presidente del Giorgione Calcio».
Aveva capito che quella era la sua strada?
«No, ma non amavo troppo studiare e arrivato alla seconda superiore mio padre disse che se non studiavo dovevo lavorare e smettere con la bici. Arrivò la proposta di correre come juniores per la Arpa Arredamenti, l'accordo era che la mattina lavoravo e la sera mi allenavo. Sono passato dilettante nel 1993 con la Padovani dopo aver fatto il militare nei Carabinieri. Ero maturato, sei vittorie in un anno, la maglia a punti al Giro d'Italia, in 65 gare sono arrivato 50 volte tra i primi dieci. Una bella presentazione per diventare professionista e il contratto è arrivato nel 1997 grazie a Giancarlo Ferretti per la MG Technogyn: Bugno era appena andato via, dovevo fare il gregario di Michele Bartoli. Ho debuttato al Tour de France, poi la morte improvvisa del titolare del maglificio ha provocato la chiusura della squadra. Sono passato a una società più piccola e sono arrivate le prime grandi soddisfazioni: nel '99 ho fatto il mio primo Giro d'Italia ed ecco il secondo posto nella tappa di Castelfranco e mi sembrava di aver vinto il mio mondiale. Nel 2000 sono tornato con Ferretti che ha messo insieme la Fassa Bartolo con la quale ho corso per sei anni filati».
Come è stato il suo primo Giro d'Italia?
«Siamo partiti dalla Sicilia, è stato emozionante, era un sogno che si realizzava: correvo con i grandi campioni, ero tra Pantani e Cipollini, ogni giorno una festa e tantissima gente sulle strade. A Castelfranco, tra i miei tifosi, il giorno del secondo posto, dietro Cipollini che era il velocista più forte. Ho fatto 14 Giri d'Italia e 12 Tour e 9 Vuelta, ma quel primo Giro mi emoziona ancora».
Cosa vuole dire indossare la maglia rosa?
«Nel 2000 a Peschici ho vestito la maglia rosa per quattro giorni. È una cosa enorme. Il giorno che l'ho indossata sono uscito dall'albergo che distava quattro chilometri dalla linea di partenza e li ho percorsi tra la gente che aspettava. Lì ho capito cosa davvero significasse, era tutto quello che potevo desiderare. Non ho mai pensato di farcela, conoscevo i miei limiti, ho sempre saputo dove potevo arrivare».
Ha vinto anche una tappa in casa, a Montebelluna. Come è andata?
«Ero giovane, sconosciuto, mia mamma Maria mi chiamava tutte le sere, tardi. Non dico che era come quella della canzoncina che ti raccomandava di mettere la maglia di lana, ma era curiosa, voleva sapere. Quella sera mi stavo facendo la barba, mi chiese come mai fossi ancora in piedi alle undici. Perché domani voglio vincere, risposi di botto. Lei commentò tranquilla: Vai stupido. Ma io davvero volevo vincere, sentivo l'aria di casa. In squadra avevamo la maglia rosa con Frigo, non si poteva pensare a una fuga che mettesse in pericolo il leader. Ho fatto uno strappo a tre chilometri dal traguardo, i compagni mi hanno portato fino alla salita nella quale ho attaccato. Conoscevo bene l'ultimo chilometro, sembravo un kamikaze sotto la pioggia e la grandine, sull'asfalto sporco di foglie. Oggi se ci passo in macchina sono più prudente di allora. È' stata una cosa stratosferica, al traguardo c'era la fidanzata Elisa che ho sposato l'anno dopo».
E la tappa vinta al Tour de France?
«Per cinque anni, dal 2006, ho corso con una squadra belga e ho ricordi bellissimi, in Belgio si vive il ciclismo come da noi il calcio, è lo sport più seguito, è una passione sana. Con loro ho vinto la tappa al Tour del 2006, unico italiano a vincere quell'anno. L'arrivo era a Macon, il venerdì dell'ultima settimana. Non volevo nemmeno partire, stavo male, ma sapevo che sarebbero arrivati i miei genitori con mia moglie per vedermi al Tour. Sono scappato con altri 14, una fuga durata 160 chilometri. A venti chilometri dall'arrivo ci siamo staccati in tre e ho vinto la volata».
E i campionati del mondo?
«L'atmosfera che si vive con la maglia azzurra è diversa da tutte le altre. Il primo mondiale l'ho corso nel 2002, Ballerini era il nostro padre, eravamo una super squadra e ha vinto Cipollini, dopo dieci anni che gli italiani non vincevano. Nel 2006 con Bettini abbiamo centrato tutti gli obiettivi. Nel 2007 a Salisburgo pensavo addirittura di poterlo vincere io il mondiale, a metà corsa nella fuga eravamo due italiani, con un quarto d'ora di vantaggio, se dietro non avessero tirato forse Ci hanno ripreso a meno di due giri dalla fine e a quel punto tutti per Bettini ed è stata una grande vittoria di gruppo. Anche nel 2008 avevamo una squadra fortissima, Ballan ha saputo prendere la fuga giusta nella salita del Varesotto che ha un nome familiare, si chiama Montello! Quattro italiani nei primi cinque, mai accaduto».
Quando ha lasciato le corse?
«Gli ultimi sei anni li ho corsi con Alberto Contador, che era fortissimo, posso dire di essere stato fondamentale per lui nei Grandi Giri. Nel 2016 a 42 anni, dopo venti da professionista, ho lasciato, potevo stare a casa per gustarmi una figlia che avevo visto pochissimo. Emma ha 10 anni, fa nuoto, è nata lo stesso giorno di Federica Pellegrini».
È rimasto nell'ambiente e non più solo come gregario
«Alla fine del 2017 mi chiama Fausto Pinarello e mi chiede se voglio fare l'uomo immagine nel suo stand al Giro, mi piaceva l'idea di salutare gli amici. Il team Sky correva con le sue bici ed è stato proprio il loro manager a contattarmi per avere informazioni sulla salita dell'Etna, la conoscevo bene, ero in grado di descriverla tornante per tornante. Mi chiesero se volevo collaborare con loro come direttore sportivo, due anni dopo da Sky siamo diventati Ineos, abbiamo in squadra grandi campioni, tra gli altri Filippo Ganna. Fare il ds è un proseguimento della mia carriera».
È rimasto un sogno?
«Da corridore avevo un sogno nel cassetto, ma ne ho uno anche da direttore: mi piacerebbe un giorno guidare la Nazionale come ct».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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