«Canto storie vere in veneto»

Lunedì 11 Dicembre 2017
«Canto storie vere in veneto»
L'INTERVISTA
«Ha deciso tutto mio nonno Gualtiero: il nome, ovviamente il suo; la data di nascita naturalmente quella del suo compleanno; e pure che strumento avrei dovuto suonare: la fisarmonica. E io mi chiamo Gualtiero, sono nato il 16 febbraio e suono la fisarmonica. Mio nonno era un vecchio socialista che non piaceva ai fascisti, custodiva nella federa del guanciale l'articolo del Gazzettino sulla morte di Matteotti, lo ha tirato fuori il 25 aprile 1945 per la Liberazione di Venezia. Mio padre si limitò ad aggiungere: Impara uno strumento, chi sa suonare non muore mai dalla fame e mal che vada un posto sul ponte dell'Accademia non te lo cava nissun!. Mi hanno regalato una fisarmonica quando avevo due anni. Piccola, un giocattolo, cantavo sempre I pompieri di Viggiù. A pensarci bene, ho iniziato così.
Gualtiero Bertelli, 73 anni, veneziano della Giudecca, è il cantautore veneto più famoso. Insegnante, ricercatore, cantastorie. Ha festeggiato il mezzo secolo di attività e due anni fa nel tempio della musica, la Fenice, è stato premiato alla carriera. Vincitore di un Premio Tenco con Barche di carta. La sua canzone più famosa, Nina è stata incisa dai più importanti cantautori, l'ultima versione è quella di Francesco De Gregori. Negli ultimi quindici anni dalla collaborazione con giornalisti e scrittori sono nati spettacoli rappresentati in tutta Italia.
Quando ha incominciato?
«Nella testa dei miei genitori suonavo ancora prima di nascere. La famiglia Bertelli era una famiglia di musicisti dilettanti. Mio nonno Gualtiero era un chitarrista provetto, faceva le serenate in gondola. Mio padre meccanico suonava batteria e chitarra, in officina si era fracassato un pollice e si è costruito un cappuccio d'ottone per continuare a suonare».
Mancava giusto la fisarmonica
Era il pianoforte dei poveri. Prima ancora delle elementari mio papà Richetto mi ha accompagnato dal maestro Umberto Grossato a San Provolo, stava lì e imparava più di me ed era severissimo: a seconda della gravità dell'errore c'era la pedatina sugli stinchi o lo gnocco sulla testa. Ma qualcosa ho imparato perché il maestro mi ha inserito nella sua orchestra di 33 fisarmoniche che girava il Veneto per le feste del santo patrono. Ero una piccola attrazione: Gualtiero Bertelli solista a 6 anni! Il primo brano era un valzer Speranze perdute. Indossavo un piccolo smoking nero, i baveri di raso, pantaloni corti».
Tutto questo ha incoraggiato i sogni dei Bertelli?
«Bastava poco per essere considerati fenomeni nel dopoguerra e io ero quello che suonava a scuola, in patronato, durante la messa. Alla Festa dell'Unità della Giudecca suonavo L'Ave Maria di Schubert tra gli applausi. Mio padre aveva un'altra idea fissa: Ciapa un toco de carta che con un toco de carta non finissi a fare la mia vita. Mi voleva impiegato, c'era una differenza sociale tra impiegato e operaio. Dopo le medie con gli amici abbiamo fondato un gruppo di rock italiano per suonare nelle serate danzanti. Tra i più bravi che si alternavano al pianoforte c'era un giovane vetraio di Murano, Lino Toffolo».
Come era la Venezia di allora?
«Era povera, molto abitata. Subiva scosse industriali fortissime: il Mulino Stucky aveva 1500 dipendenti e lo chiudevano. Porto Marghera cresceva e a Venezia restavano i lavoratori delle vetrerie, della Junghans, dei cantieri navali, dell'Arsenale. Il porto aveva migliaia di dipendenti, i giornalieri li sceglievano con la chiave: si buttava una chiave, la si faceva girare e dove si fermava si contavano le persone da far lavorare quel giorno. Il turismo è cresciuto piano piano e ha cambiato tutto».
E la Venezia dei cantautori impegnati come è cresciuta?
Forse nel 1963 con un fatto legato a un corteo di protesta contro l'intervento americano a Cuba. C'erano i fratelli Gianni e Cesare De Michelis, Massimo Cacciari, il musicista Luigi Nono con Emilio Vedova. E c'era il cantautore Alberto D'Amico il cui zio era il vicequestore che comandava la carica. Lo zio carica finì in una canzone, ma anche nella poesia di Ferruccio Brugnaro: La polizia ci spinge indietro come cani. Suonò la carica in Calle Larga e scoppiò il finimondo, mi sono salvato perché è uscita una mano da un negozio di fotografia e mi ha tirato dentro. Eravamo in quindici ben nascosti».
Quando ha incominciato a cantare?
«È stato determinante l'incontro con i dischi di Cantacronache e del Nuovo Canzoniere Italiano. Con Luisa Ronchini, che era una ceramista, scopro che si può fare un'altra musica, con Ivan Della Mea capisco che si può cantare in dialetto. Sono andato a Milano a incidere il primo disco a Pasqua del 1965, un 33 giri per una collana nella quale c'erano anche Dario Fo e Milly. Lo stesso anno il 25 Aprile ho fatto il mio primo concerto a Dongo, sul lago di Como, dove era stato catturato Mussolini. Erano le due del pomeriggio, sotto un caldo terribile, davanti avevamo un gruppetto di partigiani col fazzoletto che si spostava a seconda dell'ombra del solo albero della piazza».
Come è nata Nina, la sua canzone più famosa?
Ho capito presto che il veneto era la mia lingua anche per cantare. Trovavo ispirazione nelle storie vere. C'era quella di mio cugino che era da dieci anni fidanzato, si vedevano a fine settimana e sempre con mia zia in mezzo a controllarli. Un altro cugino aveva messo incinta la morosa ed era andato a vivere in casa dei genitori, tutti in 50 metri quadrati. È venuta fuori quasi sotto dettatura: l'ho scritta su un quaderno a righe di quinta elementare. Il titolo iniziale era Dopo sei anni, poi è diventato Nina ti te ricordi. Gli amici mi hanno rimproverato di aver fatto una canzone d'amore. Qualche mese dopo in un concerto metto il mio fogliettino sul leggio e canto Nina. L'applauso è stato grandioso. Poi l'hanno incisa Maria Monti, Ivan Della Mea, Giovanna Marini, Francesco De Gregori. Due anni fa ero in Argentina per una serie di spettacoli, in una scuola di Mendoza un coro di bambini delle elementari mi ha accolto cantando Nina».
Il premio alla Fenice per mezzo secolo di carriera
«Per la prima volta si sono accorti del mio lavoro. In maniera ufficiale lo ha fatto la più grande istituzione musicale della città. Dall'essere un cantante veneziano quasi bastian contrario, mi sono ritrovato ad essere riconosciuto per le canzoni e per aver diffuso la cultura veneta. Avendo avuto in due anni di seguito due premi alla carriera, prima alla Fenice poi la serata al Malibran, ora spero che ne passeranno molti per quello alla memoria.
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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