MESTRE - Frasi e gesti osceni da parte del suo caposquadra. Tre anni d’inferno sul lavoro, quelli raccontati da un’ex netturbina di Veritas. Ora l’uomo - M. B., 55 anni, tuttora dipendente della multiservizi veneziana - è stato rinviato a giudizio con l’accusa di stalking. L’udienza preliminare si è tenuta ieri davanti al giudice dell’udienza preliminare di Venezia, Claudia Gualtieri.
A rappresentare l’accusa il pubblico ministero, Elisabetta Spigarelli, che ha insistito per il rinvio a giudizio dell’uomo. In udienza si è costituita parte civile la donna, con l’avvocato Angelo Brancato, che ha raccontato delle sofferenze patite dalla sua assistita e chiesto un risarcimento danni. I difensori dell’uomo, gli avvocati Enrica Biancoli e Maurizio Colangelo, hanno confutato la ricostruzione dell’accusa, sostenendo che quelle dell’uomo erano solo battute, chiedendo al limite la derubricazione del reato in molestie. Ma il giudice ha optato per il rinvio a giudizio dell’uomo con l’accusa più grave di stalking.
LE IMPUTAZIONI
I fatti al centro del processo risalgono al triennio 2017-2019. Il capo d’imputazione, stilato dal pubblico ministero Massimo Michelozzi, ricostruisce un quadro pesante di molestie a carico della lavoratrice, inquadrata come operaia, da parte del suo diretto superiore, all’epoca gestore operativo a Mestre.
«Frequentemente le rivolgeva, anche in presenza di altri colleghi di lavoro, espressioni a carattere sessuale, dicendole che sarebbe venuto con lei a scopare a Venezia, che le avrebbe dato una mano a scopare mentre lei teneva il manico» si legge nel capo d’imputazione, che riporta un crescendo di altre oscenità che sarebbero state pronunciate dal caposquadra, accompagnate pure da gesti inequivocabili. Quando la donna gli chiedeva un riposo o un permesso, lui le chiedeva spiegazioni e «a fronte dei rifiuti ai suoi approcci le assegnava lavoro ulteriore». Per la donna una situazione insostenibile, che le cagionava un «perdurante grave stato di ansia costringendola ad alterare le proprie abitudini di vita» riporta sempre il capo d’imputazione. In pratica la donna era costretta a «chiedere ai suoi colleghi di accompagnarla fuori dal posto di lavoro» o addirittura «in bagno o in spogliatoio».
Mentre le «crisi di pianto» erano «pressoché quotidiane». Fin qui la ricostruzione della Procura. Nel corso delle indagini, dopo un periodo di allontanamento cautelativo, l’uomo era tornato in azienda, se pur trasferito ad altro incarico. A quel punto era stata la netturbina a non andare più al lavoro. Ora è arrivato il rinvio a giudizio e la parola passa al Tribunale.