Eugenio Perazza, il re del design che però non sa disegnare

Originario di Ceggia nel Veneziano mezzo secolo fa ha fondato la "Magis" conosciuta nel mondo, un grande laboratorio di progettazione per la casa e l'ufficio

Lunedì 5 Febbraio 2024 di Edoardo Pittalis
Eugenio Perazza

VENEZIA - Il re del design non sa disegnare. Eugenio Perazza, 83 anni, di Ceggia (Venezia) è "Compasso d'oro alla carriera", il premio che si dà alla persona più importante nel settore.

Lui gli oggetti li pensa e poi cerca il migliore per trasformare quell'idea in realtà. È anche il più forte al circolo degli anziani di Ceggia nel gioco del Tresette. «Sono un campione, veramente!». Il suo avversario è Costantino e al circolo vincere un torneo con carte Trevigiane vale quanto un riconoscimento internazionale. Forse lo scambierebbe soltanto col suo primo libro pronto per la stampa, ha già un titolo: «Il giorno in cui incontrai una bella sedia». Davanti a quella sedia nacque l'amore per il design e cambiò la vita di Eugenio. Perazza quasi mezzo secolo fa ha fondato la "Magis" conosciuta nel mondo, un grande laboratorio di progettazione per la casa e l'ufficio. Una sessantina di dipendenti tra Italia e le quattro filiali all'estero: Giappone, Inghilterra, Germania e Francia. La Magis crea sedie, tavoli, librerie, poltrone, divani, oggetti di arredo. La produzione è affidata ad aziende esterne. Fatturato di 20 milioni di euro, l'80% all'estero. La sede è a Torre di Mosto (Venezia) su 100 mila metri quadrati. Cinque compassi d'oro, il più antico e autorevole premio mondiale del design; oltre cento premi internazionali. Centocinquanta oggetti sono esposti nelle 35 più importanti collezioni permanenti: dal MoMa di New York al Beaubourg di Parigi. Ora c'è la nuova generazione: Alberto Perazza, 52 anni, con la moglie Barbara, entrambi laureati a Venezia. La terza generazione si sta preparando: Anna, dopo la Bocconi, lavora a Milano; Antonio di maturità e già alle prese con le nuove tecnologie. Perazza ha girato il mondo, ma ha sempre abitato nella casa dei nonni a Ceggia su una terra piatta strappata all'acqua dalla bonifica.

È nato che c'era già la guerra, come è stato crescere nella campagna veneta?
«Papà Carlo veniva da una famiglia di contadini e lavorava a Porto Marghera come operaio. Andava in bicicletta alla stazione di San Donà, c'era una sola linea ferroviaria Trieste-Venezia, sedili in legno, si fermava venti volte. Ogni mattina usciva di casa alle 5 per essere in fabbrica alle otto e rientrava la sera che era già buio. Per un periodo, quando studiavo ragioneria al Sarpi di Venezia, prendevo il suo stesso treno e spesso avevo come compagno di viaggio il poeta Romano Pascutto. Anche lui andava a Venezia dove lavorava alla Tirrenia. Aveva sempre in tasca la copia piegata dell'Unità. Viaggiavamo tra operai e studenti ancora mezzo addormentati. Era troppo faticoso, l'anno successivo ho deciso di proseguire gli studi al Marconi di Portogruaro».

Il suo compagno di viaggio in treno era il grande poeta dialettale Pascutto che quegli operai mezzo addormentati li ha descritti in versi bellissimi: "Te ciapa el tren de le 5/ te torna co i oci seradi,/ le man rote a picandolon./ Anca dornir e insognarse/ l'è na fadiga, nel vagon/ de legno che bala e ziga/ rivando in vinti stazion". La Magis non era ancora nemmeno nelle idee?
«Dopo il diploma il mio primo impiego è stato al grande Mobilificio Papa di San Donà. Mi occupavo del recupero crediti e un giorno mi chiesero di recuperare i piccoli crediti sospesi, cifre per le quali non valeva la pena fare azione legale. A fine anno scrissi a ognuno una lettera, dopo gli auguri ricordavo il loro debito e pagarono quasi tutti. Ma non è una cosa della quale vado fiero. Ho lasciato presto la Papa, il direttore aveva rilevato un'azienda che produceva serrande in acciaio e mi ha voluto con sé. Non è durata molto, sono uscito quando ho difeso un amico licenziato senza motivo e sono stato accusato di lavorare per i sindacati. Da lì a Motta di Livenza in un'azienda veneziana con cento dipendenti che produceva articoli casalinghi, dallo scolapiatti allo stendibiancheria. Copiava oggetti che funzionavano sul mercato, così proposi ai titolari di investire in ricerca e mi dissero di presentare un progetto. Ognuno ha almeno una volta nella vita "sette secondi magici": per me scattarono quando vidi una sedia che mi colpì sia per la qualità del disegno, sia perché realizzata in tondini d'acciaio, proprio il materiale che trattava l'azienda. Era la Knoll di Harry Bertoia, ne comprai due spendendo un milione di lire, una cifra enorme per me. Portai le sedie al nostro ufficio tecnico e chiesi quanto sarebbero costate fatte in tondino d'acciaio, la risposta fu straordinaria: 20 mila lire! C'era solo bisogno di trovare chi disegnasse una nostra collezione e chiesi a un amico della Olivetti che allora era la cattedrale del design. Mi suggerì Richard Sapper, il tedesco che avrebbe progettato la Radio Brionvega. Disegnò sedie, tavoli, accessori, ma la società rispose che non era più interessata a un designer e anche straniero. Impegnai tutta la liquidazione nella nuova azienda che chiamai Magis, di più in latino: volevo occuparmi della progettazione e della distribuzione, lasciando la produzione all'esterno».

Quale oggetto vi ha imposto sul mercato del design?
«La svolta è arrivata quando è venuto a trovarmi un amico portoghese reduce dalla Fiera del Mobile di Copenaghen. Mi dice che un'impresa danese cerca un partner per fare una sedia in tondino d'acciaio: il successo è tale che di quella sedia nel solo 1980 vendiamo oltre 200 mila esemplari, a 30 mila lire l'uno. Era la "XLine", è stata la nostra grande affermazione. Prima facevamo oggetti di servizio per la casa: portabottiglie, scolapasta, asse da stiro, una scopa. Poi siamo passati a poltrone, divani, librerie. Oggi abbiamo un pacchetto di prodotti che consentono di arredare un appartamento. Da sempre Magis crede nei talenti emergenti ed è cresciuta con molti di loro, ormai diventati famosi: Jasper Morrison, Philippe Starck, Ronan & Erwan Bouroullec e Jerszy Seymour. Ma anche Enzo Mari e Thomas Heatherwick, sua la seduta-trottola, Spun, compasso d'oro 2014. Senza dimenticare la collezione Chair One di Costantino Grcic».

Eugenio Perazza cosa vuol fare da grande?
«Le università italiane mi chiamano per conferenze, da poco sono stato alla Biennale di Venezia con tutti i licei artistici d'Italia collegati. Invito i ragazzi ad avere coraggio, ad osare, ad esplorare il nuovo senza dimenticare la saggezza del vecchio. Voglio dedicare l'ultimo tratto della mia vita ai giovani. Al liceo artistico di Nove sto lavorando per rilanciare la ceramica. Il maestro non è chi detiene il sapere, ma chi lo diffonde».

Ma il signore del design sa disegnare?
«Io non so nemmeno fare una linea retta con una matita e la squadra. Non so disegnare, E lo ritengo un fatto positivo per la mia professione: mi porta a lavorare con l'autonomia di giudicare quello che fanno gli altri. Tutti gli oggetti di Magis sono frutto di mie idee, il mio mestiere è trovare il più bravo a realizzarle».

E nel tempo libero cosa fa?
«Per passione faccio vino: Nero Magis e Bianco Magis, viene dal Collio. Mi piace, come mi piace la cucina, amo molto mangiare bene. Ma due volte alla settimana non manco al circolo degli anziani di Ceggia a giocare a Tresette».

Adesso il libro?
«È la mia storia e insieme quella dei grandi del design che ho conosciuto. Tengo molto a questo libro è già pronta una serie di presentazioni in tutte le università italiane. La prefazione è di Beppe Finessi, il grande critico, a giorni sarò a Milano per le ultime bozze. Racconto anche del mio amico da una vita, Giorgio Battistella, settant'anni fa alla sagra di Ceggia uno si fratturò la gamba, l'altro il braccio. Eravamo fissi all'autoscontro, uno azionava lo sterzo, l'altro il pedale. Non avevo ancora incontrato una bella sedia».
 

Ultimo aggiornamento: 6 Febbraio, 10:24 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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