«Al mio Burchiello quando arrivava anche Eddy Merckx»

Martedì 2 Maggio 2023 di Edoardo Pittalis
Adelino Carraro, detto Lino

Era tempo di guerra e c'era un'osteria dove la Brenta fa la curva di Oriago. Era l'osteria di Inda che tutti chiamavano dalle Tre Culatte perché aveva un sedere difficile da nascondere anche sotto una veste larga. Ogni notte Giuseppe Carraro, che lavorava al Mulino Stucky, tornava a casa in bicicletta da Venezia e per far prima si agganciava a un camion che andava a legna. Una notte il motore si spense proprio sull'ansa e Giuseppe, mezzo addormentato, finì nel fiume. Vicino si sentivano le bombe cadere sulle fabbriche di Porto Marghera. Anche se c'era il coprifuoco, Inda uscì per soccorrere il giovane. Lei confidò che voleva vendere quell'osteria che aveva sedie in paglia e tavoli grezzi; lui che voleva smettere con quei viaggi. Nella notte di guerra si misero d'accordo sui tempi e sulle lire da pagare, allora bastava anche una stretta di mano. Nacque così il locale che in pochissimi anni sarebbe diventato il "Burchiello", nello stesso punto dove è ancora, condotto oggi dai pronipoti dell'operaio in bicicletta.
Adelino Carraro, detto Lino, nato a Dolo 88 anni fa, è la memoria dell'impresa e della famiglia.

Ha guidato per decenni il ristorante dove si sono seduti protagonisti del mondo dello sport, dello spettacolo, della politica. È sommelier professionista, è stato cuoco d'oro nel 1969, ha una collezione di medaglie vinte in cucina. Ha retto per decenni la Confcommercio veneziana e la Pro-loco della Riviera del Brenta lanciando il turismo sul fiume tra ville straordinarie e feste dei fiori, della voga, dei piatti del buon ricordo e di Natale. Adesso si è ritirato a gestire l'albergo "Burchiello" proprio di fronte al ristorante che ha lasciato al nipote Giuseppe. Rimasto vedovo, due figli, vive con la compagna Nicoletta che lo aiuta nell'attività.


La storia dei Carraro incomincia sotto le bombe?
«Eravamo cinque fratelli, l'ultima è arrivata proprio sotto le bombe. Mamma Romana lavorava in un'osteria, lui da Chiari e Forti a Venezia che era alla Giudecca negli spazi dello Stucky, il granaio della città. Era piccolo e doveva aggrapparsi per sollevare e trasportare sacchi da 60 chili, ma quel lavoro garantiva il pane in tempi di tessera annonaria. La nostra vita è cambiata con la trattoria, una volta in attività si è incominciato a servire polenta con ossetti di maiale per gli operai che la mattina in bicicletta andavano in fabbrica a Porto Marghera, sotto il sellino avevano sempre un gavettino per la scorta di vino. A mezzogiorno arrivavano quelli che trasportavano merci e persone con i carretti trainati dai cavalli e si servivano ossobuco, fegato alla veneziana, le trippe. Vicino c'era anche la stazione di scambio dei vagoni, il ponte della ferrovia è stato spesso bombardato, sotto le arcate è morto il mio amico "Menego del pesce". A mezzogiorno passavano a bere i fascisti in bicicletta, di notte i partigiani per prendere il pane e qualche gallina».


Quali sono i suoi ricordi della guerra?
«Mi hanno sempre fatto paura i tedeschi. Nell'aia della casa di nonno c'era una Balilla nascosta sotto la paglia, non aveva il motore, per noi bambini era il posto magico dei giochi. Ce l'aveva portata Lino, il comandante dei partigiani di Fiesso. I tedeschi volevano il motore, una volta hanno minacciato di portare via me che avevo 9 anni, la nonna mi ha abbracciato e non mi ha mollato un istante. Dalla paura me la sono fatta addosso per due giorni di fila. Quando nell'aprile del 1945 sul ponte sono arrivati i carri armati degli inglesi si è capito che la guerra era finita. Da un carro a me e mio cugino Severino hanno lanciato una scatoletta piena di cioccolata e mamma aveva paura che scoppiasse quando l'abbiamo aperta con un coltello. Poi si è incominciato a vivere. La sera d'estate si ballava da Vettore al ritmo scatenato del "bughiuughi", come dicevamo noi, le orchestrine di tipo americano, la gomma da masticare americana, la coca cola americana. Ci andavamo per vedere le ragazze ballare, avevano le gonne più corte».


E per la trattoria come sono cambiate le cose?
«La trattoria è diventata ristorante e io a 13 anni, finite le scuole, ho incominciato a lavorare a pieno ritmo. Non ancora maggiorenne mi sono sposato con Gilda Lazzari, sono nati due figli, Elisabetta e Gabriele, sono tre volte bisnonno, due nipotine vivono in Australia. Per due anni ho preso il Bar Centrale a Chirignago, era un periodo d'oro con la televisione appena nata e c'era la folla per "Lascia o raddoppia?" con Mike Bongiorno che ogni giovedì riempiva i bar in tutta Italia. Ma papà minacciava "O vieni a casa o cedo l'osteria" e così sono tornato. Nel 1956 il locale si è chiamato non più da Bepi, ma il Burchiello, con due nuove sale. Si faceva tutto da soli, anche la pulizia con la "sborga" che era il nome in dialetto di un sapone che faceva la Mira Lanza. Il vino raboso andavamo a prenderlo dai contadini con carretti trainati dal mulo: adesso si dice chilometro zero».


Incominciava l'era del Burchiello?
«Abbiamo incominciato con la carne e col pesce, c'era il fogher sempre acceso. Nel 1958 ho preso un cuoco e un cameriere da Venezia, hanno portato un'esperienza nuova. Abbiamo incominciato a fare le serate dello sport, tutti i campioni sono passati nel nostro ristorante e molti sono diventati grandi amici, come Eddy Merckx. Ho partecipato al Cuoco d'Oro, ho rappresentato la cucina veneta per decenni nelle rassegne internazionali, l'idea vincente era quella di innovare l'offerta senza allontanarsi dalla tradizione. Nel 1958 abbiamo anche lanciato il Burchiello, il barcone che da Padova portava direttamente a Piazza San Marco a Venezia attraversando il Brenta. Ma a farci diventare famosi è stata l'autostrada: quando hanno fatto la terza corsia hanno girato la "Settimana Incom", il cinegiornale che precedeva il film; all'uscita dal casello c'era il Burchiello».


I clienti importanti che ricorda?
«La prima volta importante per noi è stata quando è venuto l'ex Presidente della Repubblica Luigi Einaudi che rientrava da Abano per le cure termali. Per offrirgli il caffè mio padre aveva chiamato i camerieri da Piazza San Marco. Ricordo l'allora potente ministro degli Interni Mario Scelba che è arrivato a sorpresa; il problema era il numero di camionette della scorta, guidate da un generale. C'era uno sciopero eccezionale a Porto Marghera. Poi c'è stata la fase legata a Vittorio Salvetti che ancora non aveva avuto l'Arena di Verona per il suo Festivalbar e faceva lo spettacolo tra Asiago, il Burchiello e Torino. Veniva la Rai, accendevano dei fari enormi sulla riva del Brenta e il nostro locale era sempre strapieno. Sono passati i cantanti più famosi: da Bobby Solo a Little Tony, dalla Berti a Lucio Dalla. Tra i nostri clienti c'era tutto il mondo del calcio, a incominciare dai presidenti Sanson, Farina, Pozzo. I fedelissimi erano l'allenatore Nereo Rocco, l'attore Ernesto Calindri e Clara Agnelli col conte Nuvoletti. Per mesi è stato ospite fisso dell'albergo Luca di Montezemolo, la Fenech girava un film da queste parte e lui arrivava a fine settimana».


Come è cambiato in questi anni il vostro mestiere?
«Oggi è diverso, nella ristorazione si soffre, c'è il problema del personale. Penso che resteranno in piedi i nomi che hanno dietro la tradizione; molti locali sono decaduti per il calo di qualità o perché i figli non sono stati all'altezza dei padri. Manca spesso il prodotto, non basta aggiungere colore per fare un piatto. Resto convinto che il branzino deve sapere di branzino e che un prodotto non è fresco solo perché c'è il ghiaccio. In quello che dicono i vecchi ci sarà forse la prima parola sbagliata, probabilmente in dialetto, ma il resto e quello che fanno è tutto da imparare. A incominciare dalla passione. Nelle scuole alberghiere devi insegnare che è sacrificio, che la settimana è fatta anche di sabato e di domenica».
 

Ultimo aggiornamento: 16:40 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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