«Salvato da Brando e "Ultimo Tango"»
Il cinema secondo Marco Tullio Giordana

Mercoledì 15 Febbraio 2023 di Chiara Pavan
Il regista Marco Tullio Giordana

Galeotto è il set di “Ultimo tango” davanti a Brando e Bertolucci, in una Parigi anni Settanta nella quale il 21enne Marco Tullio Giordana si aggira disperato dopo aver visto un’antologica su Francis Bacon. Inarrivabile per un aspirante pittore come lui, «mi fu evidente che sarei stato altro che un patetico imitatore, pensai di buttarmi nella Senna». A salvarlo è quel set incontrato per caso, un’epifania. «Stavano girando la scena iniziale, un grande dolly, anzi una gru altissima che scendeva vertiginosamente su Brando... rimasi a guardare affascinato, mi accoccolai in un angolo ne rimasi lì tutto il giorno a spiare». Questa “magia” parigina, e poi una serie di «incontri fortunati», come con lo sceneggiatore Rodolfo Sonego o col regista Roberto Faenza, gli indicano la via. Verso il suo cinema, verso uno sguardo fatto di grande Storia e di piccole storie, di vinti e dimenticati, «gli ultimi della fila, quelli che in foto vengono sempre sfocati». Il celebre regista di “La Meglio Gioventù”, “I cento passi”, o “Romanzo di una strage” si racconta a Treviso (16 febbraio ore 18 Santa Caterina) ospite del format “Cinema è letteratura” di Mario Sesti e Luca Dal Molin, in una conversazione ispirata al suo ultimo saggio, “Immaginare la realtà” (Gruppo Abele ed), scritto col sacerdote-critico Andrea Bigalli «che condivide l’idea che le storie si debbano raccontare per gli altri e non per noi stessi».

Dice di essere «scontento di come sono, non mi piaccio», per cui ama raccontare «le storie degli altri». Ma c’è sempre molto di lei nei suoi film.

«C’è inevitabilmente qualcosa di noi nelle cose che facciamo, ma questo non ci autorizza a esserne compiaciuti o assolvere i nostri difetti pensando che quelli degli altri sono peggiori.

Ho ricevuto un’educazione severa. Quando prendevo un bel voto a scuola i miei dicevano: “metà del tuo dovere”».

Il suo cinema “mastica la realtà”: quanto è faticoso lavorare con questo sguardo? O è forse l’unico modo possibile?

«Per me non c’è altro modo di procedere che studiare il quadro generale, capire le ragioni di tutti, amare i tuoi personaggi, anche quelli coi quali meno ti identifichi, ed essere il loro avvocato difensore. Non sono un fanatico, detesto i toni infervorati dell’indignazione a buon mercato e le giaculatorie mi hanno sempre fatto sorridere».

Che “molla” scatta quando abbraccia un determinato progetto? Mai avuto paura di qualcosa?

«Di sbagliare, di essere sommario, superficiale, di non essere andato abbastanza a fondo. Tuttavia questa preoccupazione non mi ha mai fatto rinunciare a un progetto, anzi. Più la sfida è difficile, più mi vien voglia di raccogliere il guanto».

Anche il teatro è un grande amore. Penso alla sfida enorme di “The Coast of Utopia”.

«Il teatro per me è un grande amore. Michela Cescon, trevigiana purosangue, oltre che ottima attrice, è amica carissima. Devo alla sua caparbietà il monumentale spettacolo “The Coast of Utopia di Tom Stoppard”, trilogia di nove ore con una trentina di attori superbi (interpretavano più di 60 ruoli!), una delle esperienze più belle della mia vita. Anche lo spettacolo “Pà”, prodotto dallo Stabile del Veneto e realizzato con Luigi Lo Cascio, altro amico fraterno, è stata una esperienza entusiasmante».

Il suo nuovo film è tratto dal romanzo di Maria Mia Veladiano, “La vita accanto”: cosa l’ha colpita?

«Racconta di un sentimento capace di rovinarti la vita, anzi molte vite attorno a te. Quello del sentirsi esclusi. Rigettati perché non rientriamo nelle norme, nei canoni prescritti. Qualcosa di terribilmente tossico che, a torto o a ragione, abbiamo tutti provato nella vita e ci ha fatto soffrire. Girerò soprattutto a Vicenza, dov’è ambientato il romanzo, ma non escludo di cercare anche in altre zone del Veneto, regione dove mi sento a casa (mia nonna materna era veneziana). Siamo ancora agli inizi e ancora devo scegliere i miei attori».

C’è un film di un suo collega che avrebbe voluto girare lei?

«Mi sarebbe piaciuto molto girare “Esterno Notte”, il film di Marco Bellocchio sul caso Moro. Ho studiato quella orribile vicenda per tanto tempo, mi ha talmente impigliato da non riuscire mai a trovarne il bandolo. In un certo senso Bellocchio mi ha liberato da una ossessione: oltre a invidiare il modo magistrale con cui ha affrontato quel nodo, non posso fare altro che ringraziarlo».

”Immaginare la realtà” l’ha dedicato a Mazzacurati.

«Era un artista appartato e sincero oltre che una persona gentile, piacevolissima, molto spiritosa. Strappato via presto, quando tanto aveva ancora da dire. Mi manca, lo rimpiango molto».

Ultimo aggiornamento: 07:35 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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