La Biennale di Venezia secondo Marco Goldin: «Cosa mi piace e cosa no», e quella stroncatura inaspettata

Venerdì 22 Aprile 2022 di Alda Vanzan
La Biennale di Venezia secondo Marco Goldin: «Cosa mi piace e cosa no», e quella stroncatura inaspettata

Marco Goldin non è di manica larga: se un'opera d'arte merita, allora scatta la stellina, ma una sola.

Per arrivare a tre, che è il massimo nella sua scala di apprezzamento, bisogna essere di fronte a un capolavoro. Va da sé che, essendo uno dei massimi esperti di impressionismo e, in particolare, profondo conoscitore di Van Gogh, l'arte dei nostri giorni non sia proprio il suo pane. Trevigiano, classe 1961, oltre 400 esposizioni curate a partire dal 1984 e circa diecimila opere ottenute in prestito da fondazioni, musei e collezioni, ammette: «L'arte ipercontemporanea non è il mio mondo, sono uno storico dell'arte dell'800 e del 900, il mio mondo è la pittura, la scultura». Solo che pennelli, tavolozze e scalpelli è da anni che non imperano alla Biennale di Venezia, vanno semmai le installazioni, le performance, le creazioni realizzate con le nuove tecnologie. Altro che i campi di papaveri dell'olandese Vincent. È anche per questo che il suo giudizio finale per certi versi sorprende: la 59ma Biennale d'Arte di Venezia che domani aprirà ufficialmente i battenti al pubblico è promossa. «Da vedere, eccome».


LE BOCCIATURE


Non tutto, ovvio. Ad alcune opere - soprattutto installazioni, come i feretri militari di Elaine Cameron-Weir - Goldin ha riservato il pollice verso («Rimasticature, barocchismo della contemporaneità, sempre le stesse cose da cinquant'anni a questa parte»), figuriamoci se si è entusiasmato nel piano rialzato del Padiglione centrale dove la rumena Alexandra Pirici ha messo in scena una performance di danzatori («Non mi emoziona, per niente memorabile»). Ed è parsa quasi concessa la stellina - una sola - all'omaggio che la cilena Cecilia Vicuna, Leone d'oro alla carriera, ha fatto a Venezia, un'installazione di corde e detriti raccolti in laguna. «Se è arte questa? Mi interrogo sempre. La definizione di arte è legata alla testimonianza, alla denuncia: lo sfruttamento della Terra come ha raccontato Vicuna, l'impatto climatico, la condizione storica». Non ci si stupisca, dunque, se i padiglioni nazionali della Spagna e della Germania non l'hanno impressionato: lì uno spazio bianco e vuoto, là i muri scrostati. «Sono idee, operazioni di carattere concettuale». Invece curiosamente gli è piaciuto il lavoro del collettivo giapponese Dumb Type: il laser, i suoni, il vetro, «tanta atmosfera».


GLI APPLAUSI


Ma la vera promozione è per Cecilia Alemani, la curatrice italiana (ed è un primato, mai successo finora a Venezia) della 59ma Biennale che ha voluto quasi tutte donne, ben 191 su 213 artisti presenti. «Ha fatto bene, il mondo dell'arte andava demaschilizzato», dice convinto Goldin. Gli è piaciuto meno il titolo dell'esposizione, Il latte dei sogni, («Brutto, ma non scrivetelo, diciamo che non è evocativo»), anche se tutto sommato sono inezie. «L'ingresso e la fine di una mostra sono fondamentali per decretarne il successo o meno. E Alemani ha centrato il tema, fin dalle parole che possiamo leggere all'ingresso del Padiglione centrale».
Le opere da non perdere assolutamente? Al Padiglione centrale non tanto l'elefante verde di Katarina Fritch, «che comunque ci sta», quanto le creazioni nelle sale successive. Goldin è rimasto incantato davanti alle tele coloratissime di Jadé Fadojutimi, la britannica che dipinge al ritmo delle colonne sonore di videogiochi giapponesi: «Bene il recupero della pittura che invece sembrava desueta». E per Jadé sono tre, dicasi tre, stelline. Altre due stelle per le sculture di cristallo di Andra Ursuta: «Vien da toccarle». E poi i quadri a maglia di Rosemarie Trockel che gli hanno ricordato «la pittura astratta americana minimalista degli anni 60 a partire da Mark Rothko fino a Barnett Newman», ma anche le fotografie di Elle Perez («Bellissime») e i pastelli di Paula Rego. «Veramente bravissima», due stelline, è la trentenne veneziana Chiara Enzo: un lavoro «straordinario» dice Goldin ammirando la sua pittura fotografica decontestualizzata, ma anche la scelta di esporre i piccoli quadri uno accanto all'altro, facendoli diventare «un'installazione che stupisce».


Cosa direbbe Vincent Van Gogh se capitasse oggi alla Biennale? «È morto cinque anni prima della prima esposizione veneziana, ma era una persona disposta ai linguaggi nuovi, non penso che si sarebbe scandalizzato, anzi, forse sarebbe entrato in questo flusso». E magari gli piacerebbe anche il Padiglione Italia di Gian Maria Tosatti - anche qui un primato, un artista unico - che, all'Arsenale, ha conquistato lo storico d'arte trevigiano: «È come se ci fossero tre scene teatrali. La fabbrica con l'alienazione del lavoro negli anni 70. L'intermezzo poetico costituito dalla camera da letto con le reti, il grande comò, il telefono a muro con il vecchio disco rotante: quell'interno anni 60 mi ha ricordato i quadri di Antonio Lopez Garcia. E poi un crescendo tra le macchine da cucire e ti immagini le donne chine sui vestiti, fino al finale sull'acqua con le lucciole. Poesia pura. Non c'è solo l'idea, c'è l'elemento dell'eterno, quello che io cerco nell'arte». Vabbè, ma il 27 novembre, quando sulla 59ma Biennale calerà il sipario, di quest'opera non resterà più niente. «Appunto, spero che venga riprodotta in un museo».


LA STRONCATURA


Prima di uscire dalle Corderie, Goldin concorda: in questa Biennale d'Arte, la prima sotto la presidenza di Roberto Cicutto, non ci sono scandali, non si sono viste provocazioni. «È vero, è una Biennale istituzionalizzata. Da vedere, assolutamente». E manco una stroncatura? «Quella va al bar appena fuori dell'Arsenale che pubblicizzava panini e cicchetti e aveva finito tutto spiegando che non c'era più niente da mangiare perché c'è la Biennale. Al secondo giorno di preapertura. Ma si può?».

Ultimo aggiornamento: 23 Aprile, 10:39 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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