«Mio figlio Matteo ucciso da un cecchino talebano in missione: ne è valsa la pena?»

Martedì 17 Agosto 2021 di Angela Pederiva
Matteo Miotto, ucciso da un cecchino in Afghanistan il 31 dicembre 2010
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THIENE (Vicenza)  - Per dieci lunghi anni, papà Franco ha continuato a porsi la stessa angosciosa domanda. Anche quando, due mesi fa, la bandiera tricolore è stata ammainata a Herat: «Penso ad una missione, allora voluta da pochi che, ormai fuori dal gioco, hanno probabilmente dimenticato. Le sensazioni che provo, sono un misto di gioia e tristezza. Gioia per chi presto riabbraccerà i propri cari, tristezza per chi non è tornato, lasciando profonde ferite a chi è rimasto ad aspettare». Adesso che a Kabul sventola il vessillo nero, torna quell'interrogativo per il padre del caporalmaggiore Matteo Miotto, vicentino di Thiene, effettivo al 7° Reggimento Alpini di Belluno, ucciso appena 24enne da un cecchino il 31 dicembre 2010, durante il suo turno di guardia nella provincia di Farah: «Ma veramente ne è valsa la pena?».


È arrivato il momento di darsi una risposta?
«Sarebbe fin troppo facile, come sfondare una porta aperta.

Premetto che non ho né la caratura né il titolo per parlare di politica, mi esprimo semplicemente da padre di mio figlio. In questa veste ho sempre avuto forti dubbi sul fatto che gli sforzi profusi sarebbero andati a buon fine. Ma non voglio assolutamente che questo suoni come una provocazione, è solo la mia opinione. E il mio pensiero va in continuità con quello che aveva scritto Matteo nella sua lettera alla comunità di Thiene, in occasione della cerimonia del 4 novembre 2010, nemmeno due mesi prima di morire».


Il messaggio in cui immaginava il dialogo in famiglia?
«Mi ricordo quando mio nonno mi parlava della guerra: Brutta cosa bocia, beato ti che non te la vedarè mai... Ed eccomi qua, valle del Gulistan, Afghanistan centrale, in testa quello strano copricapo con la penna che per noi alpini è sacro. Se potessi ascoltarmi, ti direi Visto, nonno, che te te si sbaià...».
«Sì. E poi quell'altro passaggio: Questi popoli di terre sventurate, dove spadroneggia la corruzione, dove a comandare non sono solo i governanti ma anche ancora i capi clan, questi popoli hanno saputo conservare le loro radici dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case: invano. Ecco, ci hanno provato gli inglesi, i russi, gli americani. Ma alla fine è sempre andata così e non poteva andare altrimenti nemmeno questa volta, anche se non avrei mai pensato a una caduta e a una fuga così rapide e rovinose».
Suo figlio credeva nella pace per l'Afghanistan?
«Certamente. E questo mi tira su il morale, perché Matteo era convinto di quello che faceva. Tanti dicono che era solo un idealista, ma lui credeva fortemente in quella missione, era andato lì per motivi umanitari. Nell'ultimo periodo, prima che partisse, gli sono stato vicino e ho colto quello che c'era nel suo cuore: entusiasmo. Ricordarmelo ora mi è di grande conforto».
«Papà, qui ci sparano addosso ogni giorno», le confidò suo figlio in uno degli ultimi scritti. Un tragico presagio?
«Dov'era lui, c'era la guerra. Matteo ha avuto la sfortuna di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, tanto che dopo tre mesi quell'avamposto è stato chiuso perché considerato troppo pericoloso. Ma lui aveva il suo mondo lì e io rimanevo incantato ad ascoltarlo. Ancora oggi credo si possa solo inchinarsi di fronte alle sue parole».
Ritiene che Matteo avrebbe fatto sempre il militare?
«Penso di sì. Era partito nel primo contingente per cui la leva non era più obbligatoria e aveva superato il test per i quattro anni di ferma prefissata. Dopo un anno però si era dimesso, era tornato a casa, aveva trovato subito lavoro come operaio. In quel periodo parlava poco, non capivo le sue motivazioni. Poi un giorno mi ha telefonato per dirmi che sarebbe andato a Foligno, a ritrovarsi con i suoi amici militari. Ha rifatto il test e l'ha passato con un punteggio molto alto, così è stato mandato a Belluno e poi in Afghanistan. Insomma, è stata una scelta molto meditata, al punto da tatuarsi sul petto il nome della brigata Julia»
È ancora in contatto con i suoi commilitoni?
«Con qualcuno sì. E vado spesso al reggimento di Belluno. È sorprendente come ogni anno, alla cerimonia in sua memoria, partecipi sempre più gente. È la dimostrazione che il sacrificio di mio figlio non è finito nel dimenticatoio. In fondo il suo ricordo è tutto quello che mi resta».
 

Ultimo aggiornamento: 18 Agosto, 10:08 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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