Allarme antisemitismo: «Io studentessa a Venezia costretta a nascondere di essere ebrea. Non mi sento al sicuro, non parlo più la mia lingua»

Venerdì 3 Novembre 2023 di Tomaso Borzomì
Allarme antisemitismo: «Io studentessa a Venezia costretta a nascondere di essere ebrea. Non mi sento al sicuro, non parlo più la mia lingua»

VENEZIA - A casa sua piovono i razzi di Hamas, mentre lei, che studia a Venezia e per motivi di sicurezza non può dire il suo nome, controlla compulsivamente le notizie per capire i destini dei suoi cari.

Da questi aggiornamenti può dipendere anche il suo futuro, perché come tutte le persone della sua età, potrebbe esser richiamata ad affrontare una delle atrocità più grandi che l’uomo possa conoscere: la guerra. «È una situazione difficile per tutti, famiglia, amici, una parte di me non vuole ancora credere che sta succedendo tutto questo, è uno shock grande, ogni giorno si seppelliscono morti e si va ancora avanti, è una situazione dolorosa», dice. A cui si somma un’altra, terribile minaccia: l’antisemitismo: «Ho amici a Padova, a Roma, non ci sentiamo al sicuro, le scritte sui muri crescono. Sappiamo che gli estremisti sono pochi, ma evitiamo di parlare la nostra lingua, di mostrarci per quello che siamo, ci nascondiamo perché abbiamo paura».

LA SCUOLA

Dopo le superiori, questa giovane studentessa ha deciso di intraprendere gli studi in Italia, un posto lontano da casa, ma utile per allargare gli orizzonti, andare oltre i confini della geografia. Non prima però di aver ottemperato agli obblighi di leva che per le donne in Israele dura due anni, mentre per gli uomini tre. «Lo sappiamo, fa parte della nostra vita sin da quando siamo piccoli, tutti i miei amici sono andati nell’esercito, ricordo che ci sentivamo fortunati perché durante la nostra leva eravamo al sicuro, non c’era la guerra». 
Arrivata a Venezia, la giovane ha iniziato a frequentare l’università, fino a qualche giorno fa, quel sette ottobre che per chi era in Israele sa un po’ di 11 settembre: «Sono in contatto coi miei familiari, so che amici sono stati evacuati dalle proprie case, in tanti fanno parte dell’esercito che combatte il terrorismo». Si tocca spesso i capelli, è nervosa. E chi non lo sarebbe sapendo che da un momento all’altro la propria vita da giovane che vuole solo conoscere il futuro, potrebbe cambiare per scelte imposte dall’alto e dall’altro? «Mi sono svegliata e ho sentito le notizie, il mondo ne parlava, leggevo i titoli, non volevo crederci. Continuavo a ripetermi che di lì a poco avrebbero pubblicato la rettifica, che non fosse vero niente. Ma non lo facevano, l’orrore continuava, tutto era sempre più confuso».
Una volta compresa la realtà sono subentrati altri sentimenti, la paura prima di tutto: «Ogni giorno scrivo ai miei amici, mi basta sapere che sono ancora vivi. Tutti i giorni spero che sia così». Poi però ci tiene precisare una cosa: «Non è che lì viviamo con la paura, anche il nostro esercito è una forza di pace. Si chiama IDF, “Israel defence force”, un nome che la dice lunga su tutto quanto, ci insegnano a proteggere noi e le nostre famiglie, non vogliamo iniziare nessuna guerra». La ragazza torna sull’attualità: «Si è rotto qualcosa, ora ognuno sta cercando di fare il possibile. Però quando arrivano i terroristi ci si rintana nelle safe room, la stanza della sicurezza, che ogni casa ha. Non si sono fermati davanti a niente, bambini, donne stuprate, uccidono chiunque, non gli interessa niente».
Nonostante la giovane età, colpisce la razionalità con cui la giovane affronta il dramma degli oltre 3600 bambini uccisi nel conflitto: «Mi sento in colpa per gli innocenti, è ovvio che nessuno voglia che muoia chi non ha colpe, ma dobbiamo ricordare che stiamo combattendo con il terrorismo. Un terrorismo a cui non interessa niente dei civili, che usa scudi umani, che spara su scuole e ospedali». E ringrazia gli “Iron dome system (cupole di ferro)”, armi di difesa contro i razzi, grazie ai quali «le cose non vanno peggio». Ma la rabbia riemerge quando il discorso scivola sull’attacco: «È avvenuto durante lo Shabbath, il giorno di riposo in cui in tanti non usano il cellulare e neanche l’elettricità. Così solo a tarda sera si è saputo di quello che stava accadendo». Un’altra questione delicata è quella degli aiuti: «In Israele anche se in piena guerra cerchiamo di aiutare chi ha bisogno, ma Hamas uccide lo stesso».

SPERANZA

Nonostante sia cresciuta in una terra che ha sempre avuto difficoltà con la pace, la studentessa, forte della sua età, nutre speranza: «Credo nella pace. Però adesso non abbiamo alternative perché abbiamo a che fare con il terrorismo. Semplicemente non possiamo accettarlo, tutto quello che vogliono loro è uccidere». Al desiderio di vivere si contrappone però la paura: «So che se si dovessero verificare alcune condizioni potrei esser richiamata. Quindi continuo a informarmi su quello che succede».

Ultimo aggiornamento: 18:07 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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