Bussolà, dolci tipici veneziani: ecco la ricetta originale

Lunedì 22 Giugno 2020 di Edoardo Pittalis
Bussolà, dolci tipici veneziani: ecco la ricetta originale
La storia della famiglia Palmisano che fa pane e biscotti a Burano dal 1926. Ora ha uno stabilimento a Jesolo e fattura 2 milioni e mezzo di euro con una produzione giornaliera di 50 quintali. Alla guida Luciano e Francesco: padre e figlio.

L'INTERVISTA
La S rovesciata ripercorre le anse del Canal Grande, per questo li chiamano Essi. Gli altri, i Bussolà, sono detti così perché per conservarli in barca li infilavano in una cima che li teneva in alto e asciutti, proprio come una bussola. Sono i più antichi biscotti veneziani, li facevano per Pasqua; erano buoni per i marinai e per chi restava a casa, le donne li conservavano tra la biancheria alla quale dava un profumo delicato. L'impasto è lo stesso della vecchia ricetta, forse quella delle suore del convento di Santa Caterina di Mazzorbo tramandata nei secoli dalle donne di Burano. «La cosa più bella è che è una cosa facile», dicono i Palmisano che li vendono in tutta Italia e un po' anche in giro per il mondo.
 

Bussolà, ricetta tradizionale

«1 kg di farina, 600 grammi di zucchero semolato, 300 grammi di burro, 12 rossi d'uovo, vaniglia per l'aroma, un po' di limone, un po' di rum». Finito? No, c'è il segreto che consiste nella «selezione della materia prima e nel confezionamento, attenti al burro, noi usiamo quello belga che ha una scadenza adatta alla lunga conservazione». E attenti alla cottura: «l'ideale è un forno nel quale si susseguono nella cottura il pane e il bussolà».
La famiglia Palmisano fa pane e biscotti a Burano dal 1926. La Dolci Palmisano ha lo stabilimento nella zona industriale di Jesolo. Il fatturato è di 2 milioni e mezzo di euro; la produzione giornaliera di quasi 50 quintali al giorno, ma sono già pronti i macchinari per raddoppiare il prodotto finito. A dirigere l'azienda è Francesco Palmisano, veneziano, 50 anni; a controllare il padre Luciano, 82 anni. 

Ma il cognome non è proprio buranello?
«Il primo Palmisano era un ingegnere del Genio Civile arrivato da Reggio Calabria per dirigere i lavori nelle Bonifiche del Basso Piave. Si era innamorato di una buranella ed era rimasto, tanto che è stato anche il primo sindaco di Caorle. Una sera rientrando dal lavoro in bicicletta finì in un fossato e lo trovarono annegato. La vedova con due bambini rientrò a Burano e si risposò con un cugino, Candido Bean, che aveva l'unico mattatoio dell'isola e una macelleria e che lasciò ai ragazzi un forno a testa, in piazza Galuppi. I due forni ci sono ancora. Il nonno materno Giuseppe Favin, invece, ha aperto i primi cinematografi a Burano e Murano. Burano allora aveva ottomila abitanti, c'erano orti e giardini che la speculazione ha cancellato. Il rumore degli zoccoli dei pescatori per le calli dava la sveglia prima delle campane. Nelle isole della Laguna il futuro apriva solo due porte: quella della pesca o quella delle fornaci di Murano». 

Il forno dei Palmisano come è cresciuto?
«Ha servito il paese in tempo di guerra, quando il pane si comprava con la tessera. Al mattino partivano i pescatori e i lavoratori delle fornaci di Murano, passavano tutti al forno. Le donne portavano a cuocere anche la gallina, il pesce e secchi di granchi, e soprattutto questo dolce tradizionale. A guerra finita hanno dovuto cambiare il forno per i danni della salsedine. L'abitudine di cuocere per altri è finita negli anni Novanta, quando con le nuove disposizione sanitarie gli estranei non potevano più entrare nei laboratori».

Come era questo dolce legato all'isola? 
«Bussolà era un dolce pasquale che in origine nasceva molto grosso: il pezzo singolo pesava mezzo chilo, era quello che i pescatori si portavano in barca, doveva conservare sofficità per settimane e non si lasciava aggredire da muffe. La dimensione attuale, più piccola, lo rende adatto a proteggersi molto a lungo e gli consente di non sbriciolarsi se intinto nel vino».

Poi con l'ingresso di Luigi il forno del pane si è trasformato in pasticceria
«Avevo 11 anni e ho incominciato subito a lavorare nel forno. Era il 1950, si iniziava alle due di notte, era pesante, ma a me piaceva tanto. A 18 anni mi è venuta la passione della pasticceria e sono andato a Mestre per tre anni a imparare. È un'arte che mi è rimasta nel cuore, adesso lavoro per i nipoti che mi dicono: Nonno, fai la torta così!. Mi piacerebbe che mio figlio mi aprisse un piccolo laboratorio, un angolino. È una bella e brutta malattia. La mia specialità era la torta petit-four, ora è un po' passata di moda. Ma anche la torta di mandorle che mi ha fatto premiare in tre consecutive edizioni della Fiera di Padova. Ho fatto il pizzo di Burano, una torta a sette piani in stile Settecento, decorata come un pizzo. Un anno ho telefonato ai fratini di Sant'Antonio, è venuto un camion e ha caricato la torta tutta per loro».

Ha inventato anche il dolce di San Martino come si vede oggi?
«Sì questo San Martino l'ho inventato io. Una volta si faceva a base di mela cotogna, l'impasto era tipo marmellata gelatina; c'era uno stampino piccolo con cavallo e cavaliere, si versava il liquido e si creava il dolce in persegada, era dolcissimo, troppo. Ho pensato all'impasto del bussolà e l'ho fatto ogni novembre in varie misure, fino a quelle davvero grandi. Ogni anno c'erano sempre più richieste. Venivano da ogni parte, così ho incominciato ad arricchire il dolce con zucchero fondente colorato, aggiungendo cioccolati e confetti. Da lì è partita la moda, l'anno scorso a novembre ne abbiamo fatto 22 mila pezzi. Poi le pasticcerie hanno incominciato a farlo anche in pasta frolla e si è diffuso ovunque. Oggi è il tipico dolce di San Martino».

Poi è arrivato il turno di Francesco
«Sono entrato nel 1989, quando mio papà, poco prima che facessi il militare, pensò che i nostri prodotti potessero entrare nei supermercati e il primo cliente importante è stato il Pam a Marghera. I miei figli non vedono quello che vedevo io ogni giorno: mio padre che lavorava, che sudava. Mi portava in laboratorio con un cuscino e una coperta, mi faceva dormire poggiato al desco. Abbiamo staccato la spina da quella vita, ci siamo spostati prima a Treporti poi a Jesolo, dovevamo servire la grande distribuzione, specie la Metro che ci diede subito fiducia. Avevo 23 anni ed ero fidanzato con Giorgia che poi è diventata ma moglie. La Metro mi chiese di presentare i nostri prodotti a Milano, un mese di tempo per confezionarli in scatole particolari. La signora che fece il primo grande ordine ci disse che a spingerla all'acquisto era stata la tenerezza che facevamo io e Giorgia. Pensavo che ci avesse scelto per la bontà del prodotto! All'uscita ho occupato una cabina telefonica, ero carico di gettoni, ho chiamato casa e non finivo di raccontare. Ora nella grande distribuzione non ci manca un cliente. Una volta a Panorama abbiamo esposto le gondole riempite con le scatole dei nostri prodotti. L'idea è venuta a Paolo Levorato che ha acquistato le vecchie gondole, le ha fatte trasportare da Fusina fino al supermercato dove sono state esposte. Dopo ci hanno copiato in tanti».

Cosa è rimasto della tradizione?
«La lezione di mio padre è quella di tenere tantissimo alla tradizione. Per lo zaleto ci vuole rispetto, devi avere la farina di mais, l'uvetta che deve essere quella giusta, un bel chicco che sia visibile, bello, dorato. Cerco personalmente i fichi secchi macinati per il nostro panfico. E curiamo il Pevarin che è riconducibile ai bacari e all'ombra di vino. Ha il pepe dentro che tira il bicchiere, l'oste ti dava il dolcetto ma tu consumavi. Una ricetta difficile da replicare: nasce con la melassa, quella ricavata dallo zucchero è soggetta al monopolio; non se ne trova quasi più».
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