Stregato dallo sbarco sulla luna: ora è il boss di Industrial Park, il consorzio di sviluppo tecnologico

Lunedì 12 Luglio 2021 di Edoardo Pittalis
Roberto Siagri, 61 anni

MOTTA DI LIVENZA (TREVISO) - A Roberto, che allora aveva nove anni, cambiò la vita quella notte davanti alla tv a fine luglio del 1969. Era la notte della Luna. La voce di Tito Stagno se la ricorda ancora. Davanti al teleschermo in bianco e nero capì che l'astrofisica era la sua vera passione, che la cosa che desiderava di più era l'unica copia del fascicolo dell'enciclopedia. Conoscere che arrivava per lui nell'edicola di Pravidosmini che era nel centro del paese, un negozio dove si vendeva di tutto. Si mise anche in testa di costruire un radiotelescopio, ma non sapeva da che parte incominciare. E fu allora che iniziò a interessarsi anche al mistero della raccolta dei dati. Di una cosa è convinto: «Ci vorrebbero più persone come Piero Angela capaci di portare la scienza a livello di tutti». 
Della sua passione di bambino Roberto Siagri, 61 anni, nato a Motta di Livenza, ha fatto un lavoro che lo ha reso famoso anche nel mondo. La sua idea di miniaturizzare il pc l'ha venduta agli americani. Pochi mesi fa ha lasciato per fare altro: adesso è presidente del Carnia Industrial Park, il consorzio di sviluppo industriale della Carnia che raccoglie 20 comuni, il più virtuoso dei consorzi friulani.

Offre servizi e energia elettrica e solare, fattura 4 milioni di euro l'anno, ne investe 30 in tre anni.

Davvero tutto è incominciato la notte della Luna?
«È proprio così. Sono nato a Motta di Livenza perché quello era l'ospedale più vicino. La nostra era una famiglia di artigiani, papà Natale faceva il sarto ed era un organista mancato, aveva anche fatto anni di Conservatorio, ma alla morte della madre aveva dovuto lasciare gli studi e mettersi a lavorare: Puoi scegliere di fare il muratore, il falegname o il sarto, gli disse il padre. Siamo tre fratelli, ci ha tirato su facendoci studiare, ci ha spinto tutti alla musica. La passione per l'astrofisica mi ha portato allo Scientifico di Motta, volevo fare Astronomia a Padova. Qualcuno del paese studiava a Trieste, così ho fatto Fisica sperando poi di specializzarmi in fisica dello stato solido. Facevi tante sperimentazioni con roba che non sapevi neanche cosa fosse, non te lo spiegavano».

Dalla Luna al computer, come ci si arriva?
«Mi sono imbattuto nel computer perché avevo la fissazione di costruire un radiotelescopio e le componenti che mi affascinavano di più erano quelle per raccogliere i dati. Strada facendo mi sono reso conto che il problema grosso era legato al costo del pc, anche se gli americani spiegavano già che il costo del calcolatore era destinato a scendere. Quello che cresceva, invece, era il costo del software e io pensavo che se questo software fosse stato messo a disposizione dell'industria e non solo per la contabilità, si sarebbe semplificata la vita di tutti e sarebbe sceso il prezzo. Avevo già fatto un'esperienza come progettista e direttore tecnico del gruppo Asem di Buia che era l'alternativa all'Olivetti in quegli anni. Eravamo tra i primi in Italia a fare queste cose, la società poi è stata venduta agli americani. Colpa della crisi del 1992, l'uscita dal Serpente Monetario, i tassi di interesse al 16%, la disoccupazione: il contraccolpo ha travolto molte imprese, compresa quella dove lavoravo. Pensavo che forse era meglio provare a fare da soli».

È nata allora la vostra azienda, la Eurotech?
«Ho un'idea per miniaturizzare, per internazionalizzare il processo digitale. Con alcuni colleghi abbiamo fondato la Eurotech a Majano: l'abbiamo chiamata Euro per dare l'idea che non fosse solo una cosa italiana e Tech per le tecnologie. Si trattava di saper aspettare e alla fine degli anni Novanta la cosa incomincia a ingranare, il mercato credeva nel digitale e quotava le piccole aziende in Borsa. Nel 2005 siamo riusciti a internazionalizzare il gruppo con le prime acquisizioni in Francia e negli Usa, un fatturato di 40 milioni di euro e ci siamo quotati alla Borsa di Milano. Qualcuno ci ha definito la piccola multinazionale tascabile, capace di produrre calcolatori miniaturizzati ad alta prestazione e a basso consumo.

Che differenza c'è tra hardware e software? 
«L'analogia per eccellenza per un calcolatore è quella con il telaio che realizza tessuti: l'hardware è il telaio, ovvero tutte le parti elettromeccaniche che lo costituiscono; il software le istruzioni che vengono date al telaio per produrre un tessuto con una certa trama. I fili equivalgono ai dati di ingresso nel calcolatore. L'hardware indica tutti i componenti che costituiscono un calcolatore e che consentono di leggere, scrivere, visualizzare e inviare dati. Il software è l'insieme delle istruzioni, chiamate anche programmi, che permettono all'hardware di produrre, a partire dai dati in ingresso per finire coi dati in uscita, ovvero il risultato. Oggi nell'era del cloud e degli smartphone, che sono dei veri e propri calcolatori, al posto di programmi o di software si parla di app».

Come erano i protagonisti di quel mondo?
«Sono buon amico di Pat Gelsinker ad di Intel Corporation che fa i processori di tutti i computer che usiamo. È una delle persone a me più care, umile, con i piedi per terra, grande leader, sa dire le cose e poi sa farle. C'era un periodo in cui un grande come Steve Job, che ho conosciuto a Bertinoro a parlare di calcolatori, veniva in Italia e nessuno ci badava. Il mondo delle tecnologie in Italia è visto ancora con amore e odio, non abbiamo mai fatto pace tra umanesimo e tecnologia. Come se dopo Galileo non fossimo stati capaci di mettere insieme queste due visioni. La tecnologia ci appare misteriosa, non troppo umana, invece è proprio quella che ci rende umani. Ci vorrebbero più persone come Piero Angela capaci di portare la scienza a livello di tutti: in America la chiamano terza cultura, far parlare di scienza non gli scienziati».

Cosa succederà ora in Italia? 
«Siamo davanti a una grande opportunità. Le cose cambierebbero se l'Italia investisse un po' di più in quest'area di sviluppo strategico. Non più solo come paese che produce hardware, anche se questo è un problema di tutta l'Europa che è periferia rispetto all'America. Se l'Italia credesse di più nello sviluppo tecnologico e investisse di più nella capacità di fare software nascerebbe un'industria forte. La nostra qualità è migliore di quella americana e anche di quella indiana e siamo tra i paesi più creativi e il software ha bisogno di persone creativeer. La creatività è enorme. La grande differenza consiste nel fatto che le vecchie generazioni avevano bisogno di possedere per sentirsi vive. Da giovane soffrivo del fatto che tutto mi sembrava fosse stato inventato e che non c'era posto per me. Per la nuova generazioni, per i millennials, importante è muoversi non possedere. Una volta si cercava lavoro vicino a casa, l'età contadina aveva il campo intorno alla casa. Il nuovo mondo ha una visione più larga, non costruisce nuove case, ma riutilizza le esistenti. Questa nuova entrata nel nuovo mondo richiede tanto software, tanta analisi dei dati, tanti algoritmi, intelligenza artificiale. L'industria del software farebbe bene a questo paese legato al turismo e avrebbe molto meno impatto ambientale. Sarà più un'economia di servizi, basta pensare a Venezia che è già una città di servizi. Il nuovo modello di produzione richiede il passaggio dal prodotto al servizio, l'industria non vende più prodotti ma l'uso: non compro l'aereo, prendo l'uso dell'aereo. Si crea economia in grado di crescere in maniera sostenibile, a basso impatto ambientale. Quello che accadrà dal 2050 in poi riguarda soprattutto i giovani. Hanno nuovi occhi per entrare nel nuovo mondo».
 

Ultimo aggiornamento: 13 Luglio, 09:09 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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