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Covid sospetto, sta male da una settimana, odissea per il test: «Colpa del medico di base»

Nordest > Treviso
Sabato 1 Agosto 2020 di Mauro Favaro
foto di repertorio
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TREVISO Sta male da ormai una settimana. Negli ultimi tempi aveva frequentato le piscine di Valdobbiadene, dove era emerso un caso di coronavirus. Così il suo malessere è stato inquadrato come sospetta infezione da Covid-19. Ma proprio questo, paradossalmente, le ha chiuso tutte le porte. Da domenica ad oggi non è riuscita a farsi vedere da un solo dottore. E neppure a sottoporsi al tampone per il Covid-19. Zero. Ieri è stata respinta anche dal Pronto Soccorso dell’ospedale di Conegliano, dove l’aveva inviata il medico di famiglia. E ora ha deciso di rinunciare: si rivolgerà alla sanità privata per scoprire se è stata contagiata dal coronavirus. Poi agirà di conseguenza. È l’incredibile vicenda che vede per protagonista una 68enne, italiana, residente nel Trevigiano. «Si fanno i tamponi gratuiti ai migranti, alle badanti e a chi arriva dall’estero – si sfoga la famiglia – mentre gli altri, alla fine, arrivano al punto di doversi arrangiare privatamente».

I SINTOMI L’odissea è cominciata ormai una settimana fa. La donna ha iniziato a sentirsi male domenica. I sintomi sono quelli dell’influenza intestinale. Aveva anche la febbre, sparita solo nelle ultime 24 ore. Sembrava un malessere di poco conto. Non fosse stato per un particolare che di questi tempi fa rizzare tutte le antenne: la 68enne ha frequentato le piscine comunali di Valdobbiadene proprio nello stesso periodo del 55enne che tra la fine di giugno e l’inizio di luglio è risultato positivo al Covid-19. Come prevedono le linee guida, l’Usl trevigiana aveva controllato solo i contatti più stretti dell’uomo. Lei non risultava tra questi. Le cose sono cambiate quando sono emersi i primi sintomi. All’inizio la donna ha provato a curarsi con i medicinali più diffusi, quelli che molti hanno in casa. Poi si è rivolta al medico di famiglia. «Mi è stato prescritto un farmaco anti-vomito per telefono», racconta. Non è bastato. La 68enne ha continuato a sentirsi male. A quel punto il medico ha cercato di capire se ci fossero stati contatti con persone positive al Covid-19. È in questo modo che è stata segnalata l’attività svolta nelle piscine di Valdobbiadene.

IL PRE-TRIAGE Ieri mattina, infine, la famiglia ha deciso di andare al Pronto Soccorso dell’ospedale di Conegliano. Qui c’è stata un’altra brutta sorpresa. «Al pre-triage abbiamo segnalato che eravamo stati mandati dal medico di famiglia come caso sospetto di coronavirus – raccontano – pensavamo che scattasse l’isolamento in qualche stanza e l’esecuzione del tampone. Invece non è stato così. Uno dei due giovani del pre-triage è entrato in pronto soccorso e poi è tornato riferendoci che il medico aveva detto che non potevamo entrare e che dovevamo tornare a casa, mettendoci in isolamento fiduciario». «Nessuno ha nemmeno registrato la nostra presenza – continuano – così siamo tornati indietro, passando tra la gente. Se il coronavirus è presente, l’abbiamo portato un po’ ovunque. Se invece non c’è, non sappiamo come sia possibile che una donna possa rimanere a casa stando male per una settimana senza riuscire a sottoporsi a una visita medica».

L’INGHIPPO Dall’Usl trevigiana sottolineano che l’inghippo è nato dalla gestione del caso da parte del medico di famiglia. «I medici di medicina generale sanno benissimo che non devono mandare i casi sospetti di coronavirus nei Pronto Soccorso – spiega Francesco Benazzi, direttore generale dell’azienda sanitaria –, in situazioni del genere bisogna interpellare il servizio Igiene e sanità pubblica. Da parte nostra, non ci sono problemi per fare i tamponi su chi è stato in situazioni a rischio». Se necessario, vengono attivate le cosiddette Usca, cioè le Unità speciali di continuità assistenziale, composte da medici e infermieri che seguono i casi sospetti di Covid-19 direttamente a domicilio. Parole, quelle dei vertici dell’Usl, confermate in pieno anche da Anna Pupo, direttrice del servizio in questione, che in questi giorni è in prima linea per arginare il focolaio esploso nel centro di accoglienza per richiedenti asilo dell’ex caserma Serena di Treviso ma che non perde mai di vista l’andamento dell’epidemia a livello provinciale.
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