Da Hudorovich a Baricevic e Levak, la lunga caccia ai tesori dei rom

Lunedì 5 Agosto 2019 di Roberto Ortolan
Da Hudorovich a Baricevic e Levak, la lunga caccia ai tesori dei rom (Foto di Nawal Escape da Pixabay)
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TREVISO - «Accumulo di beni riconducibile a una logica mafiosa», il primo a sostenerlo nei confronti delle famiglie rom o di giostrai, a Treviso, è stato nel 2010 il procuratore Antonio Fojadelli. Chiese e ottenne, con l'aiuto della Finanza, il sequestro (con l'obiettivo della confisca e perciò da mettere a disposizione dell'Erario italiano) di oltre un milione di euro di Adriano Hudorovich (conosciuto come il re degli zingari). La misura di prevenzione passò al vaglio del giudice di Treviso che sposò la tesi del procuratore. Ma i giudici d'appello, esaminato il ricorso degli avvocati Andrea Zambon e Francesco Murgia, demolirono l'impianto della Procura. E così tutti i beni vennero restituiti alla famiglia nomade. Successivamente, sempre su spinta della Finanza, identica misura di prevenzione venne chiesa dal pm Mara De Donà contro Adriano Hudorovich e i suoi familiari, tra i quali Ercole e i figli, ma anche in questo caso praticamente l'intero patrimonio degli Hudorovich (Ville, conti correnti ecc. per quasi 2 milioni) venne  restituito (a parte pochi spiccioli). Per i giudici la richiesta della Procura e della Finanza era carente di motivazioni. «Hanno voluto farci dimostrare - disse la difesa dei nomadi - che i beni sono stati acquistati con mezzi leciti. Lo abbiamo fatto. Ma così si capovolge l'onore della prova. Qui si è applicata una legge, quella contro i mafiosi, in modo irragionevole. Ma non si può uscire dai paletti del Diritti per fare giustizia sommaria».
L'ALTRO CASO«Mancano i concreti elementi per sostenere che i delitti evidenziati nella richiesta di confisca abbiano generato profitti», ancora un volta il giudice, terzo, ha bocciato la richiesta di maxi confisca formulata dalla Procura sul patrimonio mobiliare e immobiliare della famiglia nomade dei Levak. Nella sostanza non basta dire che la storia dei Levak è quella di una famiglia criminale, bisogna anche dimostrarlo non con ipotesi ma con fatti (i soldi di quella rapina sono serviti a comprare quella casa). La ricchezza dei Levak, stimabile tra i 6 e poco meno di 10 milioni di euro, va dimostrato essere frutto di attività criminali. Per bocciare la richiesta della Procura, i giudici, attesa la pronuncia della Corte Costituzionale, hanno esaminato ogni singolo atto. Poi la decisione che suona come una pietra tombale. «Può essere, ammettono i giudici, che il patrimonio illecito dei Levak non sia mai stato tassato ma l'evasione fiscale non giustifica la richiesta di confisca». E se per il pm De Donà le imprese imprenditoriali dei Levak nell'edilizia, nel commercio di autoveicoli usati e nella doratura di oggetti sacri sarebbero state solo un grimaldello, per attività più redditizie come furti, estorsioni, truffe e sequestri di persone ai danni di prelati. Quindi per la Procura il patrimonio dei Levak è costruito su attività criminali e va confiscato. Ma il Tribunale, nel rilevare che nella maggior parte dei casi le denunce non sono approdate a condanne, chiarisce che non è sufficiente la presunzione di colpevolezza. «Non ci sono prove - dicono i giudici - che le attività criminali abbiano generato i profitti».
IL QUARTO CASOAnche all'altra grande famiglia nomade di Treviso, quella dei Baricevic, il pm Mara De Donà e la Finanza, per il frutto delle truffe delle auto, ha contestato il sequestro di oltre 300mila euro sulla base della normativa antimafia. Il patrimonio dei Baricevic sarebbe frutto di quelle truffe e di altre attività criminali. Con quei soldi i Baricevic - per la Procura - avrebbero comprato case e oro. «I beni -spiegò l'avvocato Zambon- vennero acquistati quando sia Stjepan che Ivan Baricevic erano incensurati. La casa? Un dono della madre dell'ex moglie di Stjepan a Musano».
Roberto Ortolan
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