Trent'anni da Mani pulite friulana. Il procuratore Tito: «Decenni di polemiche ingiuste, ma è restato l'ideale»

Giovedì 17 Febbraio 2022 di Maurizio Bait
Il procuratore Raffaele Tito

Cos’è rimasto di Tangentopoli dopo trent’anni? Troppe polemiche ingiuste, una vera e propria controriforma contro la magistratura, critiche spesso violente e comunque eccessive».

In quegli anni, a Pordenone Tangentopoli aveva un nome e un cognome: Raffaele Tito. Oggi è procuratore capo nella medesima città, ma allora era un giovane sostituto procuratore. Balzò rapidamente sulle prime pagine dei giornali e ci rimase per anni: centinaia di inchieste e indagati, cento persone arrestate, 350 indagati, numerosi patteggiamenti e condanne, ma anche qualche assoluzione o prescrizione per scadenza dei termini.

Procuratore, abbiamo vissuto entrambi quella stagione da giovani, lei in Procura e il sottoscritto al Gazzettino. Davvero sono rimaste soltanto le critiche al vetriolo contro le toghe?
«Per fortuna è rimasta l’idea: realizzare una giustizia uguale per tutti e non soltanto per i poveri diavoli. È stato un tentativo, che tuttavia è durato poco e non è stato apprezzato come meritava».
Il malaffare di allora si sta riproponendo?
«Non è più possibile, non in quei termini. Oggi le persone non sono più così inquadrabili e classificabili come una volta».
Ossia?
«L’imprenditore fa anche politica, ad esempio. E viceversa. In generale i ruoli sono più fluidi».
Ma lei percepisce ancora molta corruzione?
«Non come allora. Il denaro correva assai più facilmente, poi però sono intervenute le norme anti-riciclaggio e le misure di contrasto all’evasione fiscale. Attualmente maneggiare contante in quantità importanti non è più così facile».
Intende dire che esistono altri canali?
«Esistono gli scambi di favori. Le clientele, le sponsorizzazioni, le assunzioni, le consulenze, eccetera. Questa è l’evoluzione».
Dica la verità, in quegli anni lei si è sentito solo contro tutto e tutti?
«La solitudine c’è stata, certo. Avevo la sensazione di dover fare qualcosa di più grande di me, eppure avevo il dovere di farla. Resta tuttavia un rammarico».
Quale?
«Le inchieste di allora si sono sviluppate a macchia di leopardo sul territorio nazionale, mentre l’esercizio della giustizia avrebbe dovuto funzionare dappertutto. Ricordo che allora si diceva: “la corruzione si ferma sul Tagliamento e non arriva a Udine”».
Ma lì lei non aveva competenza territoriale, operando a Pordenone.
«Precisamente».
L’accusa principale mossa ai magistrati che hanno operato durante Tangentopoli era di fare politica con la toga.
«La verità è che io ho continuato a fare il mio lavoro, mentre alcuni fra quanti mi criticavano si sono messi in politica».
In quel periodo fiorirono molti aneddoti. È un fatto che spesso la luce restasse accesa in piena notte nel suo ufficio al terzo piano del Palazzo di giustizia. Qualche volta ci è rimasto a dormire?
«Questo no. Però spesso facevamo gli interrogatori fino a tardi. Pensi che interrogai un imprenditore durante tutta la finale dei mondiali di calcio del ‘94».
Una volta ordinò a un anziano appuntato dell’Arma di impedire a noi giornalisti di entrare nel corridoio della Procura. Ma quell’appuntato era buono come il pane e gli sgusciavamo a destra e sinistra senza problemi per arrivare sulla porta del suo ufficio e carpire notizie.
«(Ride) Ne ricordo anche un’altra: una volta interrogai un indagato che alla fine decise di confessare. Prima di andarsene, però, tirò fuori un’agenda e mi chiese di fargli un autografo».
Richiesta curiosa.
«Infatti. Lì per lì rimasi interdetto, ma lui mi spiegò che era per suo figlio, che mi aveva visto alla televisione».
Alla fine fece l’autografo?
«Sì, con dedica al figlio».
L’aspetto umano, psicologico di quei giorni: gli indagati avevano il terrore di lei, questo è un fatto. E non tutti erano colpevoli.
«Ho l’orgoglio di poter dire che su cento arrestati nessuno è finito con la foto sul giornale in stato di detenzione. Quanto ad assolti e prescritti, sì, ce ne sono stati, ma in misura contenuta».
Lei ha lavorato un periodo nel pool di “Mani pulite” a Milano: è stata un’esperienza importante?
«Sicuro, sono stato nel pool dieci mesi fra il ‘93 e il ‘94: una fase molto formativa. A Milano ho trovato un autentico maestro: il procuratore Francesco Saverio Borrelli».
Dopo trent’anni, cosa non rifarebbe?
«Errori ne ho commessi, facile dirlo con il senno di poi. Mi aspettavo una contro-offensiva della politica. Ed è stata dura».
Se è per questo, lei ha subito anche attacchi personali.
«Già. Dico soltanto questo: non è giusto che chi ha fatto soltanto il proprio dovere debba subire quello che ho subito io. È un rischio anche per i colleghi».
In che senso?
«Qualcuno che vede cosa succede a un magistrato che non guarda in faccia nessuno potrebbe intimorirsi. Potrebbe farsi largo l’umana tentazione di non andare fino in fondo».
Lei però è andato fino in fondo, vero?
«Io sì, ma ripeto: guai se un magistrato fosse tentato di non vedere».
C’è un’inchiesta che lei considera più importante delle altre in quel periodo?
«Ne vorrei ricordare tre: quella sugli appalti di Autovie venete per i lavori sull’autostrada A28, ma anche l’indagine sulla grande viabilità pordenonese e quella sulla concessione edilizia di Duna Verde per la realizzazione di un insediamento urbanistico a Caorle: una tangente da 900 milioni di lire».

Ultimo aggiornamento: 18:06 © RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci