Carlo, il primo bambino di Casso a venire alla luce dopo il disastro del Vajont: «Siamo sopravvissuti per caso»

Martedì 3 Ottobre 2023 di Angela Pederiva
La famiglia De Lorenzi

CASSO (PORDENONE) - Il figlio del Vajont sta per compiere 60 anni. Carlo De Lorenzi è nato il 29 ottobre 1963, primo fiocco azzurro di Casso dopo il disastro, per questo celebrato dall’illustrazione di Walter Molino sulla copertina della Domenica del Corriere, nel reportage-anniversario sui luoghi della tragedia: “Simbolo della vita che ritorna”, si legge in una rara copia del giornale che lo ritrae bimbo accanto a una croce conficcata nelle macerie, pagine conservate come una preziosa reliquia dai suoi genitori. Bruno ed Elsa sfogliano l’album di famiglia, e dei ricordi, nella casa in cui tutto parla di quella tremenda notte: «È impossibile dimenticare, siamo dei sopravvissuti».
Il 9 ottobre 1963 Bruno De Lorenzi ed Elsa Mazzucco erano una coppia di giovani sposini.

Lui aveva 25 anni ed era un tecnico delle dighe di Chievolis, lei aveva 19 anni ed era al nono mese di gravidanza. Quel mercoledì sera in tivù davano la finale di Coppa dei Campioni fra Real Madrid e Glasgow Rangers, mentre sul grande schermo usciva “Le mani sulla città” di Francesco Rosi.

«Volevamo andare al cinema – racconta Bruno – ma mia moglie non si sentiva molto bene: ormai mancava poco al parto. Così da Longarone siamo rientrati nella nostra abitazione di Casso. Vivevamo lì durante l’autunno e l’inverno, mentre nella bella stagione stavamo nella casera sul monte Toc. Come molte famiglie all’epoca, tenevamo le mucche e facevamo il fieno. Ma proprio quel giorno ero andato con la macchina alla diga del Vajont, dove il camion di Enel-Sade scaricava le masserizie di tutti i proprietari: eravamo stati invitati ad abbandonare l’area, perché dopo la “piccola” frana del 1960 la strada si era deformata». «Quando mia mamma provava a raccogliere le patate – interviene Elsa – le vedeva andare giù in un buco: era come se la terra le risucchiasse. Ma ci dicevano di non preoccuparci più di tanto, perché secondo gli esperti la frana sarebbe scesa lentamente». 

Eppure ancora nel 1961 la bellunese Tina Merlin aveva lanciato l’allarme sull’Unità: “Un’enorme massa di 50 milioni di metri cubi minaccia la vita e gli averi degli abitanti di Erto”. I coniugi De Lorenzi sorridono amaramente: «Le autorità locali minimizzavano quel genere di notizie, facendole passare per esagerazioni della giornalista. Fra gli stessi addetti ai lavori non c’era la consapevolezza di alcun pericolo imminente». Specifica Bruno: «Il mio compare d’anello era il direttore della mensa degli operai. Quella sera si è messo comunque al volante per andare a dormire in cantiere. È sparito insieme alla strada». Aggiunge Elsa: «Mia cugina faceva le pulizie nella foresteria degli impiegati. Se avesse saputo qualcosa, non sarebbe certo rimasta là. È scomparsa anche lei».

IL BOATO

Alle 22.39 la coppia stava dormendo. Oggi il letto è custodito nello scantinato, mitragliato dalle pietre scagliate dalla furia dell’acqua e del vento. «A salvarci – spiegano i De Lorenzi – è stata l’inclinazione della palestra di roccia, davanti alla camera, su cui è andata a sbattere l’ondata. Abbiamo sentito un boato terribile, i serramenti sono scoppiati, ci siamo aggrappati al muro portante. La mattina dopo in paese è atterrato un elicottero della base Usaf di Aviano, così i militari americani ci hanno portati all’aeroporto di Belluno». 

 

Da lì il viaggio in ambulanza verso l’ospedale. «Mia moglie è stata ricoverata perché aveva il pancione – sottolinea Bruno – mentre io non avevo bisogno di cure e sono andato per un po’ da mio suocero a Conegliano. Prima di partire, ho fatto in tempo a vedere le camerate e i corridoi pieni di brandine, pronte per i feriti. Una scena surreale: non arrivava nessuno, perché erano quasi tutti morti o dispersi... Qualche tempo dopo, sono tornato a Casso e un’immagine mi ha impressionato: i grandi pini erano stati sradicati e si erano infilati nelle finestre della scuola, impacchettati come alberi di Natale». Venti giorni dopo la sciagura, Elsa ha dato alla luce Carlo: «Ricordo la visita di Maria Gabriella di Savoia, mi ha chiesto come si chiamava il bambino. Benché fosse una principessa, non mi ha regalato neanche una caramella...».

LA RICOSTRUZIONE

Per un lustro la famigliola, che poi si è allargata con le nascite di Sandro e Gabriele, ha vissuto in un piccolo appartamento in affitto a Maniago, centro che successivamente ha ceduto una propria frazione per la costituzione del Comune di Vajont. Qui dove la toponomastica è un omaggio alla memoria, da piazza Monte Toc a viale Erto e Casso, sono state costruite le case per una parte degli sfollati

Come i De Lorenzi, che si sono trasferiti nel 1968, l’anno in cui il giudice Mario Fabbri ha chiuso l’istruttoria sulla strage. «Però in seguito il processo è stato celebrato all’Aquila – concludono Bruno ed Elsa – nel tentativo di sviare l’attenzione dallo scandalo. Dopo la ricostruzione e la speculazione, sulla tragedia è calato l’oblio, anche se in vista del sessantesimo anniversario si è tornati a parlarne. Ma noi ogni 9 ottobre siamo sempre andati al cimitero di Fortogna per ricordare i nostri parenti e amici che non ci sono più. Le cerimonie? No, la politica ci infastidisce». Quella sera Carlo parteciperà alla “lucciolata” commemorativa: «A piedi da Casso alla diga», dice il figlio del Vajont. 

Ultimo aggiornamento: 16:25 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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