Nevio Scala, il contadino calciatore: «Ora produco vino biologico»

Lunedì 30 Maggio 2022 di Edoardo Pittalis
Nevio Scala nella sua vigna
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LOZZO ATESTINO - Di campi Nevio Scala da Lozzo Atestino ne ha percorsi a migliaia nella sua vita: da calciatore, da allenatore e, prima e dopo, da contadino. Una volta li percorreva per mandare un pallone in porta, oggi li attraversa sul trattore e al tempo della vendemmia si ferma per raccogliere l'uva. Il campione che ha giocato in Milan, Inter, Roma, Fiorentina e Lanerossi Vicenza, che ha vinto scudetto e Coppa dei Campioni e da allenatore una serie di Coppe in tutta Europa, adesso a 75 anni si dedica alla sua azienda agricola. La Nevio Scala produce 40 mila bottiglie di vino biologico che vende in mezzo mondo; pure olio d'oliva, soia, girasole, piselli. «Stiamo per inaugurare la nuova cantina, abbiamo recuperato un vecchio fienile vincolato dal Catasto Napoleonico, l'abbiamo ricostruito utilizzando i legni di Vaia». Ha allenato, e vinto sempre, anche in Germania, Turchia, Ucraina e Russia: «Non avrei mai immaginato allora questa guerra». Ha un rimpianto: «Ho detto di no al Real Madrid».
Tutto è incominciato su un campetto ai bordi di un canale proprio dove la terra si chiama Le Saline e, oltre la strada, finisce la provincia di Padova e incomincia quella di Vicenza.

Qui sono arrivati gli Scala nell'anno 1929, quello della Grande Crisi. «I miei genitori erano veronesi, papà Francesco veniva da una famiglia molto ricca che aveva perso tutto per una firma di avallo del nonno. Sono rimasti con le braghe e le scarpe e sono arrivati a Lozzo ospitati da un amico che gli ha affittato un terreno agricolo. Mio padre ha dovuto lasciare il liceo e inventarsi contadino. Poi si è innamorato di Regina, mia mamma, che ha compiuto in febbraio i 100 anni. Sono cresciuto a Lozzo, terzo di quattro fratelli, tutti scuola-casa-chiesa, venuti su all'ombra del campanile».


Chi ha scoperto il Nevio Scala calciatore?
«Davanti a casa avevamo costruito un campetto di calcio, eravamo due famiglie con dieci bambini: come giochi avevamo la fionda, la pesca nei ruscelli della zona e tanto pallone. A 15 anni mi hanno condotto a Tolmezzo dove c'era un raduno davanti agli osservatori della serie A. In cinque siamo andati in prova a Milanello davanti a Niels Liedholm che una settimana dopo è venuto a Lozzo a parlare con i miei genitori. Mio padre e mia madre erano contrari, ma io volevo provare con i ragazzi del Milan e mamma mi ha accompagnato in lacrime».


Come è stato l'impatto con la grande città?
«Avevo soltanto una valigia di cartone piena di tutti i problemi di un ragazzino gettato nella metropoli, era il 1963, pieno luglio e in pieno boom. Ho fatto tre anni nel settore giovanile del Milan, nel frattempo studiavo per diventare geometra. Venivo da un paesino di mille abitanti con una cultura un po' bigotta, all'oscuro delle proposte della grande città. Ho superato le grandi difficoltà psicologiche grazie all'educazione concreta, fatta di umiltà e semplicità, che i genitori mi avevano regalato. Detto così sembrano banalità, ma sono state fondamentali per la crescita».


Quando il calcio è diventato il mestiere della vita?
«A Pasqua ero sul treno per Roma per un torneo mentre avrei voluto essere a Lozzo, a guidare il trattore, a montare a cavallo. Abbiamo vinto e sono stato premiato come miglior calciatore, attirando l'attenzione dell'allenatore della Roma, Oronzo Pugliese. Quell'anno il Milan voleva dai giallorossi Sormani e Schnellinger e nella trattativa è rientrato anche il mio prestito. Pugliese mi ha subito fatto debuttare in Coppa Italia a Palermo e in serie A il 29 settembre 1966 in Roma-Brescia vinta 1-0. È stata una cosa meravigliosa, emozionante, lo stadio Olimpico pieno. Ero titolare, sarei rimasto con piacere, ma il Milan di Rocco mi ha ripreso: ho fatto un'esperienza molto bella anche in Europa, quell'anno abbiamo vinto tutto, scudetto e Coppa dei Campioni».


Poi la maglia biancorossa del Lanerossi Vicenza
«L'anno dopo mi sono sposato, l'estate prima avevo conosciuto mia moglie Janny Friedrich, una turista tedesca in vacanza a Sottomarina. Una bella storia, avevo soltanto tre giorni di ferie tra la Roma e il Milan e dovevo andare in Tunisia per i Giochi del Mediterraneo, ero il capitano della Nazionale. Abbiamo vinto l'oro, e l'ho vinto anche con Janny: il matrimonio è stato molto importante per tutta la mia carriera, lei non si è mai interessata di calcio, era ed è la mia oasi. È fondamentale non essere sempre costantemente immersi in un mondo a volte un po' falso, anche se privilegiato. Abbiamo due figli: Sacha che fa l'architetto e Claudio che nel 2013 ha lasciato la cattedra universitaria di pedagogia per occuparsi della nostra azienda. Rocco quando ha saputo che mi sposavo e che dovevo fare il militare mi ha dato in prestito al Lanerossi Vicenza, due anni bellissimi, poi sono stato venduto alla Fiorentina per la cifra allora enorme di 700 milioni di lire! Mi aveva voluto Liedholm e mi ha messo così tanto in mostra che è arrivata la richiesta dell'Inter del Mago', ma Herrera si è ammalato e ho giocato poco. Ancora nel Milan di Trap, tre anni importanti al Foggia di Puricelli e ho chiuso a Monza in serie B. Per allegria, infine, ho vestito la maglia dell'Adria, quasi sotto casa».


La rete più bella?
«Non ero chiamato a fare gol ma a farli fare, giocavo da centrocampista. Ho segnato una quindicina di reti, certo la più bella nel 1972 a Firenze proprio contro il Milan, era l'1-0, poi mi hanno atterrato in area e ho favorito anche il secondo gol di Clerici su rigore».


Il più forte col quale ha giocato?
«Gianni Rivera. Lui era veramente un fenomeno. Con lui in allenamento si vedevano cose che un tifoso non può vedere, come calciatore era illuminante. È vero era un altro calcio, la differenza tra ieri e oggi sono i soldi, il denaro ha ucciso quello che di bello c'era nel calcio di allora, la spensieratezza che era rimasta, la fantasia. Adesso o vinci o muori, la ricerca spasmodica delle alchimie ha ucciso lo spettacolo».


La seconda vita nel calcio da allenatore?
«Ero tornato a casa, una sera passeggiavo sotto i portici a Vicenza con mia moglie, quando mi propongono di prendere in mano il settore giovanile del Lanerossi. Cinque anni dopo ero a Coverciano al supercorso per allenatori e Albertino Bigon dice che mi cercano dalla Reggina in serie C. Perché non provarci? E sono andato in Calabria, da solo e con una borsa non piena perché ero convinto che dopo poche partite mi avrebbero rimandato a casa. È stato un grande campionato, siamo saliti subito in B dopo lo spareggio in una Perugia invasa dal pubblico reggino. L'anno dopo siamo andati allo spareggio per la A contro la Cremonese di Gigi Simoni: abbiamo perso ai calci di rigore, ma si era rotto qualcosa con la società».


A quel punto incomincia la storia col Parma.
«È arrivato il Parma nel 1989. Siamo andati in serie A subito, al primo colpo, e ci sono rimasto sette anni: al primo campionato abbiamo vinto la Coppa Italia contro la Juventus, l'anno dopo la Coppa delle Coppe a Wembley contro l'Anversa, c'era tutta Parma in trasferta. Poi la Supercoppa Europea col Milan e la Coppa Uefa contro la Juventus. Era una squadra di gente forte che veniva dalla B alla quale avevo aggiunto via via Taffarel, Brolin, Asprilla, Zola. Era soprattutto una squadra di grandi uomini ed era questo il segreto. Ho fatto esordire a 17 anni Buffon in porta contro il Milan e ha fatto una partitona. Si vedeva che era già grande da piccolo. Ho lasciato Parma perché era finita un'era, mi sono lasciato tentare dalla proposta economica indecente di Gaucci al Perugia. Poi è iniziato il giro d'Europa, da Borussia dove mi hanno chiamato anche perché parlo bene il tedesco, alla Turchia, a Mosca, allo Shakhtar Donetsk in Ucraina dove è stata infranta per la prima volta l'egemonia della Dinamo Kiev. Ma sono sempre tornato a fare il contadino».
 

Ultimo aggiornamento: 22:55 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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