La storia della famiglia Ottolitri e del frantoio ad Arquà Petrarca

Lunedì 27 Febbraio 2023 di Edoardo Pittalis
La storia della famiglia Ottolitri e del frantoio ad Arquà Petrarca

PADOVA - Chi dice che nel cognome non c'è la storia di ognuno di noi? Perfino in un cognome dato in fretta all'ospedale Giustinianeo di Padova, in una sera d'inverno del 1872, a un bambino rifiutato dalla madre Maria e portato in fasce da un'infermiera alla ruota degli Esposti nella chiesa di via Ognissanti al Portello. Sembra l'inizio di un romanzo d'appendice, quelli che allora i giornali pubblicavano a puntate in fondo alla prima pagina. Il Gazzettino non c'era ancora, sarebbe arrivato dieci anni dopo. Quel Veneto era diventato parte del Regno d'Italia da pochissimi anni. La ruota avrebbe smesso di funzionare nel 1888. L'infermiera si ferma davanti alla scritta, protetta da una grata, che dice in latino: "Il padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto". Bussa tre volte per consegnare il bambino e, per non lasciare tracce, porta via anche la coperta con la quale lo avevano avvolto. Prima, però, chi accoglie il neonato le chiede di dargli un nome e un cognome. Dice Fulvio senza esitare, perché il bimbo ha i capelli biondorossastri; poi aggiunge quasi senza fermarsi: "Ottolitri".
Lo aveva suggerito un medico dell'ospedale e le era sembrato diverso da tutti quelli dati ai bambini abbandonati: Esposito, Colombo, Diotiallevi, Proietti Ogni città aveva i suoi trovatelli, per decenni i cognomi Esposito e Colombo sono stati i più diffusi a Napoli e a Milano. Oggi nel Veneto un centinaio di persone portano il cognome Ottolitri e tutti discendono da quel Fulvio. Vivono tra Monselice, Albignasego, Padova. È capitato anche che una signora Ottolitri abbia sposato un signor Moscato. Non stupisca il fatto che i discendenti di quel Fulvio 150 anni dopo abbiano prestato il loro cognome al vino e soprattutto all'olio.
"Nomen omen", dicevano i latini, il nome è un destino. La famiglia Ottolitri ne è la dimostrazione. Luciano, il pronipote, 75 anni, ha con i figli Alice e Luis un frantoio ad Arquà Petrarca e imbottiglia un olio che chiama "Colli del poeta". Lavora su olivi secolari, 950 piante di settecento anni portate dalla Toscana dai monaci benedettini. In anni normali arriva a lavorare 7000 quintali di olive, anche per i 450 produttori della zona. Quest'anno il troppo caldo ha provocato disastri. Luciano ha fatto anche l'albergatore a Galzignano, si è inventato la "gara della soppressa" e la "gara d'oro" tra gli olivicoltori dei Colli. Ha adottato un bambino sudamericano, lo ha chiamato Luis come il nonno. La figlia Alice, 42 anni, è rientrata per dedicarsi all'azienda di famiglia, dopo una lunga esperienza negli Usa nel settore alberghiero. Dalle finestre del frantoio di via Sant'Eusebio si vede il monte Orbieso, lo chiamano così anche se è alto poco più di trecento metri, il "gigante" è il Venda, 601 metri, sembrano di più perché regge i ripetitori tv.
I colli Euganei sono coni vulcanici che spuntano isolati sulla pianura veneta centrale. Ventiduemila ettari di parco regionale, boschi di castagni, querce e robinie che furono portate dal Nord America nel Seicento. Le famiglie sono cresciute nel borgo Valsanzibio, nella valle del monastero di sant'Eusebio, dietro la villa dei Barbarigo, famosa per il Labirinto e perché ha il giardino più vasto d'Europa, dopo quello della Reggia di Caserta.
Quel primo Ottolitri approdò nel borgo per essere allattato da una balia, poi affidato alla famiglia di un certo Sinigaglia di Valsanzibio, infine allevato dalla famiglia Contarin che aveva terra e case.

Fulvio era alto e prestante, faceva il bovaro, sposò Pierina che aveva ereditato una piccola "cesura", un taglio di terra dove poi hanno costruito una casa e sono cresciuti i figli. Tutto attorno, in origine, era di proprietà dei monaci benedettini, in cima al colle c'era il monastero. Fulvio ebbe undici figli, tra loro Luigi, il padre di Luciano.


Come è incominciata la storia degli Ottolitri olivicoltori?
«Sono cresciuto qua, mamma aveva la convinzione che facessi il prete, così ho studiato al seminario, medie e liceo. Anni fa ci siamo trovati tra ex compagni di seminario, molti sono diventati sindaci dei paesi qua attorno. Non era la mia vocazione, mi sono laureato in lettere e ho insegnato per tre anni, è stato traumatico. Ho cambiato mestiere, ho fatto per 40 anni l'assicuratore, poi per 15 anni, dopo la pensione, ho preso un albergo per i figli, il "Belvedere" a Galzignano. Ho inventato la "gara della soppressa" ed è nata anche un'Accademia della soppressa che mette assieme gli artigiani dei Colli. Quando l'affetti emana un profumo che invade l'ambiente, lo chiamo il "sapore della memoria" anche per ricordare quello che diceva Dino Durante che ha scritto quel capolavoro che è "Antica gastronomia del Veneto povero". L'olio è stata una passione resa possibile da mio fratello e, soprattutto, da Stefano Carli che aveva ereditato l'azienda delle famiglia Treves».


La figlia Alice si è laureata a Venezia con una tesi sulla costruzione di un frantoio sui Colli Euganei come centro di promozione culturale. È partito tutto da quell'idea?
«Sono cresciuta da lunedì a venerdì ad Abano dove lavorava la mamma, fine settimana a Galzignano in albergo. Andavamo a raccogliere le castagne, c'era la pista di motocross. Ho fatto il liceo linguistico a Padova, ho preso l'amore per le lingue e per i viaggi dalla mamma. Laurea a Ca' Foscari in economia e gestione dei beni culturali, la tesi era nata dall'idea della valorizzazione del territorio creando un frantoio come contenitore per l'educazione a livello locale. Dopo l'apertura del Belvedere mi sono dedicata all'albergo che era una delle prime strutture sui Colli. Poi sulle piste da sci di Asiago ho conosciuto mio marito, lui è di Schio, viene da un mondo diverso, il padre aveva una ditta leader che progettava le chiavette per pagare ai distributori del caffè e delle bibite. A entrambi piaceva lo snowboard, ma ci piaceva anche cambiare, e una volta per i nostri compleanni ci siamo regalati un viaggio di un mese negli States. L'ultima tappa, la California e San Francisco, ci ha affascinato, così abbiamo deciso di trasferirci negli Usa, abbiamo acquistato un b&b e ci siamo messi al lavoro nella zona vinicola fondata dagli italiani: molte delle grandi cantine sono di famiglie di ascendenza toscana».


Come è stata l'esperienza americana?
«Siamo partiti con entusiasmo, il Made in Italy è la chiave che apre ogni porta. I vini californiani hanno una struttura incredibile, sono pieni, gustosi, zuccherini, anche alcolici; molti sono derivati dal Primitivo di Manduria. Ha funzionato, è stato davvero un bellissimo modo di lavorare e di vivere. Ma ha vinto il Covid: noi eravamo lì con permesso di soggiorno e con le restrizioni per la pandemia non ci lasciavano andare avanti e indietro. Ti senti un emigrato così lontano da casa, ti viene la paura: nonostante abbia successo, non puoi andare a vedere come sta la tua famiglia. Mia nonna stava male, mia suocera stava male, sapevi che non potevi nemmeno dare loro l'ultimo saluto. Dopo dieci anni abbiamo deciso di rientrare. Il papà non voleva più gestire il frantoio che aveva bisogno di una rivoluzione perché da passione si trasformasse in un'azienda che producesse reddito. Abbiamo rivoluzionato tutto, dal logo all'impostazione».


Rimpianti dell'America?
«Qualcuno sì, specie se hai provato cosa vuol dire lavorare dove non esiste la nostra burocrazia e il sistema ti dà davvero una mano. Ma abbiamo voluto portare un po' di quello che abbiamo imparato, a partire dall'approccio giovane: dall'entrata nelle scuole alle escursioni negli uliveti con la luna piena. Ora è in progetto una scuola di musica. A settembre ci sarà il ventennale dell'azienda, poi faremo la Festa del Frantoio, prima del Covid è venuta l'Orchestra di Berlino».

Ultimo aggiornamento: 17:11 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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