Don Galante lascia Schiavonia: «Ecco i miei sei mesi in guerra con il Covid»

Il ricordo dell’emergenza: «Non ho mai fatto tante carezze alle persone come in quel periodo»

Mercoledì 7 Settembre 2022 di Nicoletta Cozza
Don Marco Galante al centro, all'ospedale di Schiavonia

PADOVA - «Sono don Marco. Posso salutare?». Queste parole erano il suo passe-partout per entrare nelle stanze del primo Covid Hospital d’Italia. Scafandro con il Crocifisso disegnato a penna, cuffia, mascherina e calzari, e una domanda nel cuore, a cui, benché sia un uomo di fede, non ha mai saputo dare risposta: «Perché tanta sofferenza?». Don Galante, 47 anni, originario di Este, prete simbolo della lotta al Coronavirus, ieri ha passato il testimone della cappellania dell’ospedale Madre Teresa di Calcutta a don Ivano Salmaso, in quanto il vescovo lo ha nominato parroco alla Paltana, alla Mandria e a Voltabrusegana.

Era stato proprio monsignor Claudio Cipolla nel novembre del 2020 ad assegnargli l’incarico di portare conforto nell’hub del virus, e poi era arrivata pure la telefonata di Papa Bergoglio. E l’altro ieri a fine mandato tutto l’ospedale lo ha ringraziato.

Don Marco, monsignor Mattiazzo l’aveva mandata a Schiavonia come cappellano per ri-progettare la pastorale sanitaria e poi è arrivato il virus.
«Quella del Covid è stata un’esperienza umanamente travolgente, perché la sensazione avuta era di trovarsi nel bel mezzo di una guerra, con feriti martoriati. Per me era come toccare il corpo crocifisso di Cristo».

Che cosa ricorda in particolare?
«Nella vita non ho mai fatto tante carezze alle persone come in quel periodo. A un certo punto la primaria Lucia Leone mi ha chiesto di occuparmi delle videotelefonate dei familiari che chiedevano di poter vedere i loro cari che si stavano spegnendo: impartivo il sacramento dell’unzione con i parenti che seguivano dal tablet chiedendomi di stringere la mano o di accarezzare il congiunto, di pronunciare il loro nome, per fargli sentire la vicinanza. I pazienti coscienti rispondevano con un “grazie” o una lacrima; quelli in coma rimanevano immobili, ma sono certo che percepivano di non essere soli».

Un compito difficilissimo, ma significativo…
«Mi commuovo nel ricordarlo. Allora non mi rendevo conto di essere uno strumento così rilevante, ma l’ho capito l’altra sera, quando medici e infermieri nel salutarmi hanno sottolineato l’importanza che in quei frangenti ci fossi anche io».

In molti hanno voluto dirle grazie.
«Quando ho preso la parola ho fatto una battuta dicendo che ai funerali si parla bene dei morti e che nella fattispecie mi sembrava di essere il defunto… Ho poi aggiunto che non ho frequentato solo il bar, ma anche la chiesa e i reparti, anche se il punto ristoro era una sorta di crocevia dove si entrava in relazione. E proprio lì tanti medici mi hanno chiesto di confessarsi».

Cosa le ha detto Papa Francesco al telefono?
«Mi ha raccomandato di non stare accanto a chi soffre solo per abitudine».

C’è un episodio accaduto durante pandemia che le è rimasto impresso?
«Sono tanti e li raccoglieremo in un libretto che uscirà a Natale. Non posso dimenticare, però, una mattina che sono arrivato quando c’era un’emergenza per salvare un paziente giovane che conoscevo e che poi è guarito. Era in arresto cardiaco e nei 45 minuti che lo hanno rianimato sono rimasto fuori, appoggiato al muro a pregare. Il medico quando è uscito mi ha detto “Il fatto di saperti lì mi ha dato tanto coraggio”. In realtà avevo fatto solo il mio compito».

Qualche altro particolare?
«L’incontro con un malato, Giovanni, che subito si è dichiarato ateo. Ci siamo visti per 40 giorni e alla fine nella sua stanza è stato ricoverato un altro paziente che quando sono entrato e mi sono presentato, mi ha comunicato pure lui di non essere credente. E a quel punto l’altro ha esclamato “nessuno tocchi don Marco, che quando arriva è un raggio di sole, una luce”. Non gli ho mai fatto prediche, lui ha continuato a scrivermi e ha ripreso in mano la sua vita».

Gente che soffriva, che moriva, lei da sacerdote cosa pensava?
«Tutti i momenti mi chiedevo perché queste persone dovessero patire così tanto, in quanto la sensazione del malato di Covid non è di soffocare, ma di annegare all’aria aperta. Terribile. E ho vissuto tutta la mia impotenza quando un signore mi ha implorato dicendomi “mi dia un po’ di aria”. Nei sei mesi di servizio nel reparto Covid ho visto alcune persone morire e tante guarire, perché su 1.490 ricoverati i decessi sono stati 250».

Che cosa porterà di questa esperienza nelle parrocchie che andrà a guidare?
«L’amore per l’umano. Da sacerdote è un “umano portato a Cristo”, ma sempre dando valore a quello che la persona sta vivendo, o sta soffrendo. Mi ha aperto gli occhi sul fatto che un prete non deve essere slegato dalla vita quotidiana, che è fatta di gioia, ma anche di dolore».

Ultimo aggiornamento: 07:59 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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