Covid due anni dopo, l'infermiera Silvia: «Il mio viaggio in ambulanza con Renato, uno dei primi malati»

Lunedì 21 Febbraio 2022 di Gabriele Pipia
l'infermiera Silvia Busolli

MONSELICE - Quanto è lungo un viaggio a sirene spiegate da Schiavonia a Padova? Trentuno chilometri, venti minuti. Molto di più, se quella strada ti porta ad imboccare un tunnel da cui solo due anni dopo riesci forse a vedere la fine. Silvia Busolli, 35enne di Rovigo, lavora come infermiera a Schiavonia e quella maledetta sera del 21 febbraio 2020 era a bordo dell’ambulanza che ha trasportato Renato Turetta, uno dei primi due pazienti Covid scoperti in Veneto. 
 

Silvia, torniamo a quel giorno? 
«Ero fuori per una normale emergenza. Una persona con una crisi respiratoria, intubata sul posto. Quando rientriamo in ambulanza all’ospedale, però, nulla è come prima».
 

Due vostri pazienti, Adriano Trevisan e Renato Turetta di Vo’, sono appena risultati positivi a questo sconosciuto Coronavirus. 
«Arriviamo e non ci lasciano nemmeno scendere dall’ambulanza, ci dicono che prima devono procurarci delle mascherine. Alle 17.30 la primaria Roberta Volpin dà comunicazione che il pronto soccorso deve essere svuotato. Poi, alle 19, ci viene detto che i due pazienti devono essere trasferiti a Padova».
 

Che sensazioni prova? 
«Una sensazione di assurdo. Siamo tutti spiazzati, non ci rendiamo ancora conto della portata della cosa». 
 

Tocca a lei accompagnare uno dei due pazienti. 
«Trevisan è intubato, Turetta no. Siccome la mia collega infermiera ha un bimbo piccolo a casa, penso a proteggerla. Le dico: prendi tu il paziente intubato, almeno le sue vie aree sono protette. Io vado con l’altro». 
 

Alle 19.30 partite. E lei invece come si protegge?
«Con i guanti per lavare i piatti e con una grande tuta che avevamo a disposizione da molti anni prima, quando le minacce si chiamavano Sars e Ebola. Ricordo un caldo incredibile e la difficoltà di muoversi. Non ho mai sudato così tanto in vita mia». 
 

Altri dettagli?
«In ambulanza con Turetta siamo e l’autista. I nostri due vani sono collegati tramite una finestrella, ma quella finestrella deve rimanere chiusa. Parliamo e non ci sentiamo». 
 

Al paziente, intanto, lei cosa dice? 
«Gli chiedo come sta e se ha bisogno di qualcosa. Non so bene cosa dirgli. Ad un paziente che si rompe una gamba spieghi che gli metteranno il gesso e andrà tutto bene. Ma qui?».
 

Il viaggio finisce alle otto. 
«Lasciamo Turetta alle Malattie infettive, ad accoglierlo ci sono anche i familiari. La camera isolata è già pronta, io gli faccio l’in bocca al lupo. Poi, al ritorno trovo il telefono pieno di messaggi preoccupati da parte di colleghi, amici, familiari. Purtroppo ricevo anche una notizia: l’altro paziente non è stato portato a Padova. È morto a Schiavonia. Rientriamo in pronto soccorso e ci rimango fino alle 19.45 del sabato. Un turno da 30 ore». 
 

In questi due anni si è contagiata anche lei?
«Mai, non so come ma resisto. E ora speriamo davvero che sia finita, anche se finita del tutto forse non lo sarà davvero mai». 
 

Due anni nella prima linea del pronto soccorso. Tanta paura e tanta fatica, ma proviamo a citare un bel momento?
«Un giorno di primavera del 2020, durante il lockdown, sono entrati in pronto soccorso mamma papera e tutti i suoi anatroccoli. Sono stati accolti dal personale del pronto soccorso e portati fuori, al sicuro. È stato un momento di sorriso, di leggerezza. Ci voleva».
 

Ultimo aggiornamento: 22 Febbraio, 09:58 © RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci