TREVISO - Un incubo lungo due anni. Il primo caso di Covid nella Marca è stato scoperto il 25 febbraio del 2020. Luciana Mangiò, 76enne di Paese, ex professoressa del Duca degli Abruzzi di Treviso, morì la sera stessa. Era ricoverata nella Geriatria del Ca' Foncello da quasi tre settimane. Avrebbe dovuto tornare a casa il giorno dopo. Ma la febbre le schizzò improvvisamente a 40. E da quel momento nulla fu come prima. Il reparto venne blindato per provare ad arginare il focolaio. «Per qualche ora pensammo di chiudere l'intero ospedale di Treviso ricorda Francesco Benazzi, 65 anni, direttore generale dell'Usl ma sarebbe stato un disastro».
Roberto Rigoli, all'epoca direttore della Microbiologia, poi padre dei test rapidi, faceva la spola tra il Ca' Foncello e i laboratori di Padova per la conferma delle infezioni.
Direttore Benazzi, l'epidemia da Covid esplose direttamente in un reparto dell'ospedale.
«L'infezione è arrivata in Geriatria dall'esterno. La paziente Zero è stata la badante della 76enne. La signora avrebbe dovuto essere dimessa il giorno seguente. Ma quella febbre improvvisa ci ha spinto a eseguire il tampone. Così è stato confermato il primo caso».
Il reparto fu subito blindato. L'ex primario Massimo Calabrò ha detto che se si fossero attesi anche solo due giorni in più sarebbe stata una strage. C'erano già 8 medici positivi su 12 e 36 infermieri, poi saliti a 51, su un'ottantina. Come siete riusciti ad andare avanti?
«Abbiamo chiuso il reparto e fatto il test a tutto il personale e a oltre 200 pazienti che erano stati ricoverati dal primo dicembre del 2019. Siamo riusciti a gestire il focolaio bloccando i ricoveri in Geriatria e trasferendo progressivamente le persone in Malattie infettive. L'impegno del personale è stato straordinario».
Avete mai pensato di chiudere l'intero ospedale di Treviso, come era stato fatto pochi giorni prima a Schiavonia?
«Sì. La Geriatria è frequentata anche da cardiologi, pneumologi, radiologi. Si temeva che i contagi potessero espandersi in tutta la struttura. Ma poi abbiamo deciso di non chiudere l'ospedale hub della Marca. Avrebbe voluto dire non poter più dare risposte ai pazienti colpiti da tumore e alle persone che avevano bisogno della neurochirurgia e della cardiochirurgia. Sarebbe stato un disastro».
All'inizio medici, infermieri e operatori venivano chiamati eroi. Poi, però, le cose sono presto cambiate. Come mai?
«Tutti speravano che il problema si esaurisse dopo la prima ondata, a metà del 2020. Non è stato così. A causa di un sentimento di frustrazione, da eroi siamo diventati cattivi. Nonostante questo, abbiamo lavorato al meglio con la Prefettura, i Comuni e i volontari. Sono stati i momenti più importanti in un periodo drammatico».
Oltre al super-lavoro, nei mesi successivi il personale ha dovuto sopportare anche gli insulti dei No-Vax.
«Non solo insulti. Ci sono state pure aggressioni, anche all'interno dei reparti. Il nostro personale le ha superate mettendo sempre davanti i pazienti. Come Usl, inoltre, abbiamo attivato un servizio di sostegno con gli psicologi».
Come ha vissuto le prese di posizione dei negazionisti del Covid che nonostante il ricovero per problemi respiratori sono arrivati a rifiutare l'ossigeno, a volte sostanzialmente lasciandosi morire?
«Sono rimasto basito. Non avrei mai pensato che sarebbe potuto succedere davanti ai risultati evidenti sia delle terapie che delle vaccinazioni. All'inizio in tutto il mondo nessuno aveva protocolli chiari su come curare il Covid. Ma poi abbiamo lavorato con il plasma, gli anticorpi monoclonali, gli antivirali e, appunto, i vaccini».
Oggi dovete confrontarvi ancora con minacce di stampo No-Vax?
«Molto meno. La morsa del Covid si sta allentando. Questo rasserena il clima. Senza più l'obbligo di mascherina all'aperto, ad esempio, si sente più libertà. Si comincia a rivedere una possibilità di normalità».
L'emergenza è finita?
«Non ancora. I numeri si stanno riducendo, ma non è possibile fare previsioni. Abbiamo ancora 190 pazienti positivi ricoverati, compresi 10 in Terapia intensiva. E oltre 10mila trevigiani con più di 50 anni devono ancora vaccinarsi. L'auspicio è che dal prossimo autunno il vaccino anti-Covid possa rientrare nell'ambito di quelli contro l'influenza».
L'anno scorso lei avrebbe potuto andare in pensione. Da dove è nata la decisione di rimanere al timone dell'Usl in mezzo alla tempesta Covid?
«Gli ultimi due anni sono stati impegnativi. Abbiamo sofferto molto. Ed è stato logico pensare di portare il lavoro a compimento. Questa attività mi piace. Ci sono tante preoccupazioni, ma anche molte soddisfazioni. C'è un unico rammarico, che non andrà mai via».
Quale?
«Quello per le tante persone che hanno perso la vita nel primo periodo dell'epidemia, quando non c'erano ancora terapie efficaci. È un segno che mi rimarrà impresso in modo indelebile».
Dopo questa durissima esperienza, come vede la sanità post-Covid?
«Sempre più territoriale. A livello veneto abbiamo retto meglio di altri perché siamo una delle poche regioni che ha conservato un sistema socio-sanitario. Grazie ai nostri collaboratori, alle Usca, ai medici di famiglia e ai pediatri siamo riusciti a contenere gli effetti dell'epidemia. L'organizzazione territoriale ci ha aiutato molto. Nonostante i grandi carichi di lavoro, nei nostri ospedali non abbiamo mai visto scene come letti nei corridoi o ambulanze in fila. La sanità del futuro dovrà essere sempre più territoriale. In modo che gli ospedali possano concentrarsi sui problemi acuti. Con le Case della comunità (i super-ambulatori, ndr) e gli ospedali di comunità stiamo andando proprio in questa direzione».
È preoccupato dall'avanzata della sanità privata?
«I centri convenzionati e accreditati, come il San Camillo, la casa di cura Giovanni XXIII e i vari ambulatori, non sono nostri nemici, ma nostri partner. La quota della sanità privata non è mai cambiata. Nemmeno durante l'emergenza».
Poi c'è anche il privato puro, intendendo le strutture non convenzionate.
«Ci sono cittadini che anche grazie alle assicurazioni possono permettersi il cosiddetto privato puro. Ma noi non abbiamo rapporti con queste strutture».
L'importante è che le persone non siano costrette a ripiegare sul privato perché non trovano posto nel pubblico. Come Usl ora avete una grossa sfida davanti: recuperare le 17mila prestazioni non urgenti (tra 16mila visite ed esami e quasi 1.000 interventi chirurgici) sospese durante l'emergenza.
«Abbiamo già iniziato a recuperare le liste d'attesa. Puntiamo ad azzerarle entro la fine dell'anno. Il problema vero è che ormai è quasi impossibile reclutare nuovi specialisti, perché non ci sono».
A proposito di emergenza, crede che durante l'epidemia alcune persone colpite da altre malattie siano mancate perché non hanno avuto cure dagli ospedali concentrati sul Covid?
«È difficile da dire. Per la stessa ragione potremmo dire che il 60% dei pazienti positivi è mancato non direttamente per il virus ma per problemi correlati al virus. Quel che è certo è che abbiamo sempre garantito tutte le urgenze per i tumori, gli ictus, gli interventi di cardiochirurgia e così via. Sempre. Per il resto si rimane nel campo delle ipotesi».