Vajont, l'appello del soldato-eroe: «Prima di morire vorrei ritrovare quella bambina»

L’ex caporale estrasse la piccola dalle macerie dopo la tragedia della diga

Domenica 8 Ottobre 2023 di Angela Pederiva
Giacomo Leuci

LONGARONE - In questi giorni di commemorazioni a Longarone (Belluno), il sindaco Roberto Padrin ha ricevuto un messaggio da Bisceglie (Barletta-Andria-Trani), mittente il signor Giovanni Leuci. «Papà si sta spegnendo, la avviserò quando ci lascerà.

Gradirei che la sua comunità lo ricordasse anche con un manifesto quando avverrà... grazie. Quest’anno voleva esserci il 9 ottobre». Invece purtroppo suo padre Giacomo non riuscirà a partecipare alle iniziative di domani: l’ex caporale del 5° Reggimento Genio di corpo d’armata dell’Esercito, di stanza a Udine in quella notte di 60 anni fa, è gravemente malato al punto da non avere più molto tempo davanti. «Ma prima di morire vorrei ritrovare quella bambina...», ha sempre detto l’uomo ai suoi familiari, non avendo mai dimenticato la piccola che estrasse ancora viva dalle macerie.

L’ALLARME
Alle cerimonie sarà proprio il figlio Giovanni a rappresentare Giacomo Leuci, classe 1942, all’epoca soldato di leva. «Papà – spiega – fu tra i primi a giungere nella valle sommersa dall’acqua. Un’esperienza drammatica che gli è rimasta nel cuore: fino a un paio di settimane fa, quand’era ancora in forze, rievocava sempre con amici e parenti quella sua impresa, mostrando a tutti con orgoglio la pagina di giornale che gli era stata dedicata tanti anni fa». Giovanni lascia che a parlare sia proprio il padre Giacomo, attraverso il suo lungo e lucido racconto alla Gazzetta del Nord Barese: «Nella caserma Spaccamela, sulla via Cividale, c’erano cinquemila militari, dormivamo tutti quando alle ore 23.15 suonò l’allarme. Fummo chiamati all’adunata nel piazzale dove ci chiesero se volevamo prestare soccorso ai civili di Longarone perché la diga del Vajont era crollata. Ci fecero presente che il viaggio sarebbe stato impervio e scomodo per raggiungere la valle allagata. Qualcuno parlava di attentato, quindi chi avesse voluto partecipare alla missione avrebbe dovuto fare un passo avanti ed uscire dai ranghi». 
Il militare pugliese non tentennò un attimo: «Partimmo a mezzanotte, le informazioni erano frammentarie, la protezione civile non esisteva, ci dissero che la zona era impraticabile e per questo arrivammo sul posto alle prime luci dell’alba. Vidi solo fango e pezzi di case ed il letto del fiume che stava rientrando nei suoi margini, poi si aggiunsero gli alpini che con i picconi iniziarono a scavare, mentre un elicottero dell’aeronautica militare in perlustrazione in montagna precipitò perché le pale dell’elica si impigliarono tra i cavi della teleferica e i tre ufficiali che erano a bordo morirono».

IL PICCOLO BRACCIO
Data la grande concitazione del momento, e l’irriconoscibile condizione dei luoghi, oggi è molto difficile individuare con certezza il punto esatto del salvataggio prestato da Leuci. Ma dai suoi ricordi è presumibile che quella bimba, verosimilmente nata nel 1957 (e dunque oggi 66enne, se ancora vivente), abitasse nel territorio comunale di Erto e Casso, più che in quello di Longarone. «Notammo ai margini del fiume, ad un centinaio di metri dalla diga, qualcosa che si muoveva nel fango, pensavamo che fosse un ramoscello o altro, poi grazie alle luci accese del nostro camion trovammo la vita. Era il piccolo braccio di una bambina di 6 anni che respirava ancora. La tirammo fuori e la consegnammo agli ufficiali medici degli alpini: fui felice per aver contribuito a riaccendere la speranza e a dare conforto alle ricerche».
Attività che continuarono con strenuo impegno, malgrado il contesto terribile. «Con le lunghe aste uncinate si recuperavano e trasportavano sulla zattera i corpi gonfi e senza vita, ma ogni volta che suonava la sirena scappavamo con il tremolio nelle gambe e il pensiero dei miei cari a Bisceglie non mi abbandonava. Poi ci fu detto di non cadere in acqua perché non si escludeva che fosse inquinata dalla naftalina prodotta da un’industria nei pressi di Longarone, dove rimase in piedi un campanile». Dopo cinque giorni, l’allora 21enne rientrò alla base. «Quando tornammo in caserma ad Udine fummo messi in quarantena per un paio di settimane. Poi si tenne una manifestazione commemorativa con il ministro della Difesa, Giulio Andreotti, che ci consegnò la medaglia e l’attestato».

I RICONOSCIMENTI
La benemerenza datata “zona del Vajont, ottobre 1963” è incorniciata a casa Leuci: “Quando una immane sciagura si era abbattuta sulle popolazioni del Cadore i militari accorsero a portare l’aiuto che essi soli in quelle circostanze potevano dare. Prodigandosi in comunione di dolore oltre i limiti del dovere rintracciarono e composero i morti, riaprirono le strade, gettarono i ponti, donarono ai superstiti il conforto di una assistenza fraterna, fiorita d’amore. Mentre i morti raggiungevano la pace, coloro che erano rimasti ritrovavano la speranza perché sentivano che attraverso i suoi figli alle armi tutto il popolo italiano era presente con la decisa volontà di aiutarli a riprendere il cammino”. Poi nel 2020 a Giacomo è stata consegnata pure la pergamena del Comune di Bisceglie: “Per aver operato con altruismo e umanità nella tragedia del Vajont, dando speranza e conforto laddove c’era disperazione e smarrimento. Con riconoscenza da parte dell’intera Comunità”. Eloquente l’omaggio del sindaco Angelantonio Angarano al proprio concittadino: «Prestò soccorso in quel teatro di morte e disperazione riuscendo a salvare anche la vita ad una bambina sepolta da fango e detriti».


Tuttavia all’81enne è rimasto un rammarico: non aver più saputo nulla di quella piccola ferita, con l’augurio che sia diventata una donna. «Nel corso degli anni – precisa Giovanni – mia sorella Isabella ha cercato di rintracciarla, anche con l’aiuto del Comitato per i sopravvissuti del Vajont, ma non siamo mai riusciti a trovare niente. Del resto la superstite era piccola e la confusione era tanta: papà mi raccontava che la situazione era agghiacciante, con tutti quei cadaveri da recuperare...». Mai dire mai: in questi giorni si sono parlati in videochiamata Vincenzo Campisi e Paolo Munarin, cioè il carabiniere e il bimbo di 21 mesi immortalati da un celebre filmato della Rai. «Sarebbe l’ultima gioia per papà: qualche sera fa – confida il figlio – ha guardato su La7 il fil “Vajont, la diga del disonore” e a tratti aveva gli occhi lucidi...».
 

Ultimo aggiornamento: 14:06 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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