App per salvare le pecore: «Razze a rischio: solo 300 capi di pecora di Lamon e 2400 di Alpago»

Sabato 22 Maggio 2021 di Federica Fant
Pecora di Lamon: solo 300 capi rimasti

LAMON/ALPAGO - Partecipato e dal linguaggio diretto e comprensibile il convengo di presentazione, che si è tenuto ieri online, sui risultati raggiunti in oltre due anni di attività dal progetto “Sheep al.l. chain”. È l’iniziativa che mira al miglioramento della competitività degli allevamenti delle razze ovine autoctone a limitata diffusione: pecora di razza Alpagota e pecora di razza Lamon. Il progetto è finanziato nell’ambito del Psr Veneto Gal Prealpi e Dolomiti. Nell’incontro i protagonisti sono stati gli allevatori e le associazioni che li uniscono. Ma anche uno dei principali prodotti di Sheep al.l. chain: l’app, strumento degli allevatori per una più efficiente gestione delle greggi e per favorire la tracciabilità del prodotto.

IL PROGETTO

L’obiettivo generale del progetto è la valorizzazione degli allevamenti delle razze ovine a limitata diffusione bellunesi, razza Alpagota e Lamon, con una condivisione informatizzata dei dati genealogici e tracciabilità delle produzioni. Capofila del progetto è il Centro Consorzi di Sedico, gli altri partner sono le due associazioni di allevatori Fea de Lamon e Fardjma, due aziende agricole allevatrici (Giopp Ruggero e Terre dei Gaia), l’Università di Padova, l’Ulss, l’Unione Montana Alpago, l’Istituto Agrario di Feltre “A. Della Lucia” e Punto 3 srl.

LA FOTOGRAFIA

Per il Centro Consorzi, Antonella Tormen ha inquadrato il progetto, fornendo dati. Per la pecora alpagota si parla di una trentina di allevatori che coinvolgono circa 2400 capi in tutto, mentre per quella di Lamon i numeri sono molto inferiori, si ragiona su circa 300 capi. Alla professoressa dell’istituto Agrario di Feltre, Serena Turrin, è spettato inquadrare il Centro di conservazione della razza per il recupero, la salvaguardia e il mantenimento della pecora di Lamon. Gli studenti del “Della Lucia” si sono impegnati nelle visite alle aziende per la raccolta dei dati e seguire la sperimentazione dell’app. Poi il recupero, conservazione, riproduzione e incrementazione degli ovini, degli allevatori custodi, mettendo a disposizione i dati raccolti.

IL LAVORO

Una parte dei loro compiti era realizzare la filiera sulla pastorizia autoctona, allevando, trasformando e assaporando la carne. Tra gli obiettivi valorizzare la lana delle pecore, progettare un distretto biologico e pensare ad una certificazione dei prodotti (carne e lana). A delineare le linee seguite per il «mantenimento della competitività degli allevamenti delle razze ovine autoctone a limitata diffusione, in riferimento a quella alpagota e di Lamon» ci ha pensato il professor Enrico Sturaro, del Dipartimento di agronomia animali alimenti risorse naturali e ambiente dell’Università di Padova. Il docente ha cominciato con dire che progetti come “Sheep al.l. Chain” «rappresentano buone pratiche, per tipologia di approccio, che è utile estendere anche altrove».

IL RISCHIO

In Italia esistono 300 specie tra quelle di ovini, tra queste sono segnalate le due bellunesi. «La biodiversità è costantemente monitorata, delle 84 razze censite 33 non sono a rischio estinzione, le altre hanno gradi diversi di rischio, quella alpagota rientra nell’area delle critiche, mentre quella di Lamon a serio rischio», ha inquadrato il professore. Gli obiettivi perseguiti dal progetto erano quelli di «supportare gli allevatori nella gestione riproduttiva delle razze per favorire la variabilità genetica, elaborare un sistema di tracciabilità delle produzioni, formulare un piano per la conversione al regime biologico per i piccolo allevamenti e valorizzare tutti dati all’interno di strategie di marketing». Obiettivi per lo più raggiunti. 

Ultimo aggiornamento: 08:17 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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