Le chiamano lacrime di coccodrillo.
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Vero, ma le crepe abbiamo cominciato a vederle più di dieci anni fa, e non abbiamo fatto niente, niente di serio. Ci siamo battuti il petto nel 2010, quando ci fecero fuori dal mondiale Nuova Zelanda e Slovacchia; ce lo siamo battuto più forte nel 2014, quando inciampammo in Costarica e Uruguay; ci siamo crocifissi nel 2017, quando mancammo clamorosamente l’ingresso al mondiale russo, incapaci di segnare un gol alla Svezia. Pensavamo di aver toccato il fondo, e invece al fondo non c’è mai fine. E allora, da ieri, tornano le lacrime di coccodrillo.
LE FAMOSE RIFORME E sospirando, interroghiamo noi stessi: ah, se la nostra modesta Serie A non contemplasse venti squadre, con tante partite brutte e inutili, di uno spettacolo a volte indecoroso, che intasano il calendario, e non hanno consentito - tanto per dire - alla nostra Nazionale di preparare degnamente l’appuntamento della vita. Eppure, della “madre di tutte le riforme”, cioè la riforma dei campionati come ebbe a definirla Carlo Tavecchio tra botte di razzismo e cadute di stile, se ne parla - appunto - da un decennio. Cosa si è fatto? Niente. Troppi interessi da coltivare, troppi giocatori da pagare.
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DOVE SONO GLI ITALIANI? E ancora, ci si chiede con la lacrimuccia: ah, se non avessimo applicato il Decreto crescita - pensato per far tornare in Italia i nostri scienziati - al calcio (sì, al calcio), consentendo alle nostre gloriose società di abbattere la tassazione dei calciatori arrivati da campionati stranieri, col risultato di riempire di bidoni non solo la Serie A, ma - ha fatto notare ieri sera il presidente federale Gabriele Gravina - finanche la Primavera, dove ormai gioca solo il 30% di ragazzi italiani. Ma lo hanno scoperto ieri sera? Ci si chiede, davanti a questa pletora di dirigenti che governano il nostro calcio poverello, dove fossero in questi anni, perché le migliori intenzioni - ammesso che ne abbiano avute - siano diventate sempre costantemente impossibilità di agire; se, infine, non sia arrivato il momento di fare tabula rasa, affidando il calcio a chi lo conosce, a chi lo ha giocato, a chi gli vuole bene, a chi non è a caccia di un mestiere.
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