Ricorre in questi giorni il centenario della nascita del Partito Comunista Italiano,

Sabato 23 Gennaio 2021
Ricorre in questi giorni il centenario della nascita del Partito Comunista Italiano, fondato il 21 gennaio 1921 a Livorno da una costola dei socialisti. Questa data coincide con la scomparsa di uno dei suoi rappresentanti più illustri: l'amico Emanuele Macaluso, con cui, malgrado la diversità di molte idee, condividevamo la fede nel garantismo e l'amore per alcuni piaceri della vita. Il suo riverente ricordo mitiga il nostro giudizio severo su questo partito, al quale peraltro riconosciamo il merito di avere, almeno nelle intenzioni, sostenuto la causa dei poveri e degli sfruttati.
LA SENSIBILITÀ
Questa sensibilità non era originaria dell'ideologia marxista, cui il Pci si ispirava. Era sorta tra i filantropi e gli utopisti europei disgustati dalla miseria provocata da una disordinata rivoluzione industriale, e dalla cinica rapacità dei suoi protagonisti. Ma era stato Marx a darne una sistemazione teorica, mutuando da Hegel una dialettica trasferita dalle astratte regioni dello Spirito a quelle materiali della lotta di classe. Il comunismo era presto diventato una religione, e quindi una chiesa. La rivoluzione bolscevica ne aveva fissato la sede a Mosca, cui presto tutti i partiti, compreso il nostro, prestarono ossequio fedele. L'avvento di Stalin eliminò definitivamente ogni dissenso interno ed esterno, e sull'originaria aspirazione palingenetica dell'arruffato filosofo calò la plumbea vulgata del Cremlino. In Italia, l'avvento del fascismo spinse il Pci nella clandestinità, molti membri sopportarono con coraggio il carcere o l'esilio, ma molte cellule continuarono a operare. Esse costituirono l'embrione di una parte della Resistenza armata durante l'occupazione nazista. Militarmente contò poco, ma politicamente legittimò il Pci alla costruzione della Repubblica. La firma di Umberto Terracini in calce alla Costituzione testimonia il contributo determinate a un'impalcatura legislativa che ancora sussiste.
La diffidenza verso Stalin, il magistero della Chiesa, la personalità di De Gasperi e l'alleanza con l'America determinarono, nel 1947, l'allontanamento del Pci dal governo. Da allora l'Italia visse una sorta di democrazia monca, ingessata dall'impossibilità di cedere la direzione a una forza eterodiretta e comunque invisa alla maggioranza del Paese.
IL POTERE
Tuttavia il peso che il Pci perdette in potere politico lo guadagnò in ambito scolastico e culturale, con una lungimirante e accorta politica di accaparramento, aiutata dalla miopia della nuova generazione democristiana, e avallata da una condotta individuale rigorosa. In questo il Pci si differenziava dalla nomenclatura sovietica, di cui si poteva dire quello che Clemenceau rimproverava alla Chiesa: nata come insurrezione dei poveri si era trasformata nel sindacato dei ricchi. Nell'Urss infatti l' Apparatchik prosperava in una vita parallela, con privilegi impensabili negli stati liberali. Al contrario, il Pci si vantava, e a buon diritto, di una disciplina quasi penitenziale. Era ufficialmente ateo: ma poiché, come insegnava un saggio, quando si smette di credere in Dio spesso si finisce per credere a tutto, aveva sostituito la Trinità e i santi con dei surrogati caricaturali. Così i nostri gerarchi sfilavano compunti davanti alle macabre salme di Lenin e di Stalin, il cui corpo, «fangosa veste di decadenza», era stato imbalsamato a perenne simbolo di un lugubre feticismo ideologico.
Con l'andar del tempo il senso di questa teofania, già mal fissato nel pensiero di Marx, evaporava in quello dei discepoli, e spesso si risolveva in banalità enfatiche buone per un elettorato esposto a tutte le credulità. Quando, nel 1961, l'Urss fece esplodere Tzar, la più grande bomba H mai costruita, di oltre 50 megatoni, e successivamente piazzò gli SS20 nucleari a pochi passi da casa nostra, il Pci ne esaltò la funzione pacifica. Qui si rivelò l'influenza cogente del Partito presso i cosiddetti intellettuali. Molti di questi fecero spallucce, e ne riversarono la colpa sulle provocazioni americane, per quella medesima grossolana seduzione dell'interesse che li tratteneva dal denunciare le incarcerazioni di Solenicyn e di Siniawsky, le umiliazioni di Pasternak e l'esilio di Andrei Sacharov, il padre della bomba prima ricordata. È stata una pagina deplorevole per la nostra storia, e ancor più per la nostra cultura.
LA BIGOTTERIA
Alcuni si sorprendevano che la bigotteria minuziosa dei burocrati di Botteghe Oscure accettasse il sostegno e la militanza di attori, registi e scrittori noti per i loro gusti eccentrici e la loro condotta dissoluta. Ed in effetti la casa madre moscovita ripudiava inorridita quelle forme artistiche innovative, che considerava espressione della degenerazione borghese. Solo Picasso, a fatica e a prezzo di alcune umilianti concessioni aveva trovato benevolenza alla corte di Stalin. E tuttavia il Pci non si fidò mai completamente di queste disordinate truppe ausiliarie: la sua non fu una recezione acritica, ma accortamente vigilata. Quando fu necessario, come nel caso di Pasolini, intervenne con la pudicizia burbera del maestro elementare. Anche qui gli intellettuali di sinistra incassarono, se non proprio con entusiasmo, certo con docilità cortigiana. Non erano tutti in malafede: di alcuni si poteva dire, come per Mirabeau, che erano pagati per mantener fede alle proprie opinioni. Il Pci, comunque, non esagerò mai. Sapeva che il lazzaretto politico cui era confinato era provvisorio, e comunque ampiamente accessibile.
L'AMNISTIA
Sarebbe tuttavia ingiusto dimenticare alcuni momenti in cui il Pci contribuì alla vita della nostra democrazia. L'adesione di Togliatti al governo Badoglio e alla Monarchia, l' amnistia largamente concessa anche ai fascisti, l'appello all'ordine dopo l'attentato di Pallante furono segnali importanti di realismo pacificatore. La vergogna di cui si coprì il partito appoggiando la repressione sovietica in Ungheria nel 56 fu in parte compensata dalla pur timida dissociazione dopo l'invasione della Cecoslovacchia nel 68. E la ferma difesa della legalità e dei principi costituzionali durante gli anni di piombo, unitamente al responsabile e saggio rifiuto di trattare con i brigatisti durante il caso Moro, contribuirono a legittimare il Pci, agli occhi dei moderati, più delle stucchevoli litanie sulla pace del mondo e dei rituali celebrativi di una Resistenza di cui si era indebitamente arrogato il monopolio.
Come spesso accade, l'apogeo del Pci segnò l'inizio della sua fine. Dopo aver raggiunto e quasi superato la Dc alla morte di Berlinguer, il Pci subì la sorte della chiesa madre: tutta l'impostazione teorica del marxismo, già scricchiolante, crollò assieme al muro di Berlino. Il resto è cronaca di oggi, e benché l'attuale politica sia evanescente e quasi pittoresca, possiamo sentire una certa nostalgia di quegli uomini, ma non del partito che rappresentavano.
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