Leggo il fondo del mio direttore, lo chiamo ancora così anche se ho lasciato

Giovedì 21 Novembre 2019
Leggo il fondo del mio direttore, lo chiamo ancora così anche se ho lasciato il giornale nel 2007, e condivido in pieno: sì, facciamo uscire il Mose dal porto delle nebbie. Ma non basta. Ho seguito passo passo per il Gazzettino, per 15 anni, l'evolversi del progetto, e poi il crescere dei lavori, e ho visto tante di quelle forzature procedurali che al momento mi sembravano incomprensibili, che hanno finito per instillarmi altrettanti dubbi sull'utilità e l'efficienza tecnica del Mose. L'opera, ricordiamolo, non ha un progetto esecutivo generale, ma procede per stralci, ed ha subìto un giudizio negativo di valutazione di impatto ambientale, superato per la bocciatura da parte del Tar del Lazio del relativo decreto per cavilli giuridici, ma rimasto nel merito senza risposta. L'inchiesta giudiziaria ha chiarito il perché di certe forzature, ma all'epoca (2014) a causa della prescrizione ha toccato solo gli ultimi 9 anni della vicenda: e prima? Passaggi oscuri e dubbi non erano mancati, decisioni in Comitatone che indicavano una pervicace volontà politica di procedere nell'opera a prescindere da ogni valutazione critica diversa, dubbi e proposte alternative sostenuti anche da personalità del calibro di Massimo Cacciari, nel suo ruolo di sindaco. Salvo pensare che anche tali passaggi siano stati frutto di corruzione, un'analisi del perché andrà fatta: non più giudiziaria, ma certamente politica. Fare uscire il Mose dal porto delle nebbie non riguarda solo il futuro, ma anche il passato. Non sono un tecnico, ma credo che sarebbe necessaria anche una revisione critica e indipendente dei passaggi progettuali e costruttivi più controversi. Penso che nei due anni necessari al completamento dell'opera lo si potrà fare, per arrivare all'esercizio nelle massime condizioni di sicurezza, dopo severi collaudi anche in quelle condizioni che la società francese Principia, leader mondiale nella validazione di progetti off shore, afferma a rischio di collasso del sistema. Detto questo, e ricordando che c'è un convitato di pietra, ovvero la crescita del livello del mare, che il Mose, ammesso che funzioni, potrebbe forse fronteggiare, ma a prezzo della morte del porto e della trasformazione della Laguna in un lago o in uno stagno, va sottolineato che il processo di salvaguardiae non si riduce al completamento del Mose, come appare dalle dichiarazioni di pressoché tutti gli interlocutori istituzionali. Il Governo, se deciderà come deciderà di procedere nell'opera, dovrà inserirla in una visione sistemica, com'era sempre stato prima del Consorzio pigliatutto, e dovrà progettare e finanziare un futuro di quest'area coerente con veri obiettivi di salvaguardia e di sviluppo, fondati sulle caratteristiche proprie della città: delicatezza, complessità, rispetto vero dell'ambiente. Serve finalmente un piano di riassetto morfologico della Laguna, senza la quale Venezia non è; serve risolvere il problema delle grandi navi senza più scavi in Laguna ma cambiando il modello di un crocerismo incompatibile; serve immaginare una portualità nuova, in grado di affrontare le sfide ambientali che il futuro ci riserverà; serve governare il traffico acqueo che, unito al mancato scavo a secco dei rii cittadini, provoca enormi danni fisici alla città e alla Laguna; serve affrontare il tema del turismo per non trasformare definitivamente Venezia in Disneyland; serve un grande piano di manutenzione urbana; serve una nuova politica del lavoro e della residenza per ripopolare la città; serve, forse, uno statuto speciale per Venezia. Serve, insomma, una nuova legge speciale.
*Giornalista
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