L'ultimo doge e lo sfidante gay senza paura

Giovedì 24 Giugno 2021
L'ultimo doge e lo sfidante gay senza paura
LA STORIA
«Se i fa dose il Mocenigo, guardeve le culate, caro amigo». Questa scritta è comparsa sulle natiche di una delle due statue di Marte e di Nettuno che sorvegliano dall'alto la Scala dei giganti, a Palazzo ducale, nel marzo 1789, poco prima dell'elezione a doge di Ludovico Manin. L'affermazione ingiuriosa intendeva colpire il principale avversario di Manin, ovvero Alvise V Sebastiano Mocenigo, che si era macchiato del «vizio nefando». Si era persino fatto un po' di anni di carcere, a Brescia, proprio a causa della sua omosessualità.
Al tempo la si definiva «sodomia» e l'atteggiamento di fronte ai rapporti omoerotici era ambivalente: «La sodomia è boccone da principi» sta scritto nel volume di Antonio Rocco, L'Alcibiade fanciullo a scuola, pubblicato a Venezia nel 1652 e subito messo all'indice, con una certa efficacia, visto che ne sopravvivono soltanto dieci copie.
Di tutto ciò si parla nel libro scritto da Tommaso Scaramella, Un doge infame. Sodomia e nonconformismo sessuale a Venezia nel Settecento, edito da Marsilio. Scaramella, ricercatore all'università di Verona, si è studiato i processi per sodomia conservati nell'Archivio di stato dei Frari e in quello patriarcale, e dalle antiche carte è pure emersa la vicenda del mancato doge Mocenigo. Nella Serenissima, come in molti altri stati dell'epoca, la sodomia era un reato punibile con la pena di morte sul rogo. Ma il rischio di finire bruciati vivi tra le colonne di Marco e Todaro era molto teorico, soprattutto nel Settecento. Scaramella spiega che se nel XVI secolo si tenevano cinque/sei processi all'anno per sodomia, e spesso si procedeva d'ufficio, nel XVIII secolo la media è un processo all'anno soltanto e sempre per la denuncia di qualcuno che avesse subito violenza. Si tratta di processi che noi definiremmo per stupro, più che per omosessualità.
D'altra parte la settecentesca piazza San Marco era percorsa dalle gnaghe, uomini vestiti da donne che adescavano altri uomini. È proprio di quegli anni, ovvero del febbraio 1783, la spiata agli Inquisitori di stato di Angelo Tamiazzo, uno dei più prolifici confidenti dei babai' (plurale di babau) come venivano chiamati gli Inquisitori. «Riferisco il scandalo universale che viene recato da certi uomini vestiti da donna, dette volgarmente gnaghe, da quali escono parole oscene, cosa che porta stupore e meraviglia a tutti, e particolarmente a forestieri, che stupiscono vengano tollerate. Per il più sono giovani di fresca età, girano la piazza, sotto le Procuratie, vanno alle osterie, per li casini, intervengono alle feste di ballo, e dicesi per contro che usano la sodomia». Chiaro che se questi travestiti avessero davvero rischiato il rogo ci sarebbero andati più cauti.
Alvise V Sebastiano Mocenigo apparteneva a una delle famiglie patrizie più illustri di Venezia: sette dogi e ventisei procuratori di San Marco (l'ultimo dei procuratori è proprio Sebastiano). Si sposa e ha un figlio, pure lui Alvise, come tutti i Mocenighi maschi, che fonderà Alvisipoli e sposerà una delle figure femminili di maggior spessore della Venezia di quegli anni: Lucia Memmo. La carriera politica di Sebastiano è di grande rilievo, come si addice a chi appartiene a una famiglia di prima grandezza. Viene nominato ambasciatore in Spagna, riesce a far rientrare la moglie a Venezia, e a quel punto la rappresentanza diplomatica della Serenissima a Madrid diventa il centro dell'intensa attività omosessuale del nobiluomo
La sua fama di libertino giunge alle orecchie del più famoso dei libertini veneziani. Giacomo Casanova ne scrive così: «Io non ho mai visto in un uomo un'anima più voluttuosa di quella di Mocenigo, il quale, infatti, per quello che riguardava il piacere dell'amore detestava le donne». E qui Casanova ci fa sapere che Sebastiano Mocenigo non era certo l'unico a praticare apertamente l'omosessualità: «A Venezia c'è una grande quantità di uomini di tale specie. Essi ridono dei moralisti, ignorano quello che loro dicono, ossia che potrebbero lasciare in pace i begli uomini, dato che non dipende che da loro immaginare che qualsiasi donna sia un uomo. La supposizione si tali predicatori è sbagliata, poiché questi antifisici non vogliono essere attivi, ma passivi, ed è chiaro che con una donna essi non lo possono essere».
Dopo esser stato ambasciatore a Madrid, Mocenigo viene eletto ambasciatore in Francia e Parigi, nel Settecento, era il paradiso dei libertini. Poi il Senato lo nomina rappresentante diplomatico a Vienna e qui avviene il primo inciampo: alla corte di Maria Teresa non lo vogliono, a causa della sua cattiva fama. La faccenda finisce al Consiglio dei dieci, che il 18 settembre 1773 rimette Mocenigo al giudizio degli Inquisitori, incriminato sopra una materia «la più turpe e abominevole di senso, per una condotta scandalosa e detestabile con l'aggravante di averla sostenuta presso estere corti», con il rischio di esporsi «al dileggio e alla disapprovazione altrui». Dopo cinque giorni viene votata la sua decadenza da ambasciatore e al suo posto viene nominato Alvise II Contarini.
Mocenigo, come detto, viene rinchiuso nella torre di Brescia, ma una volta uscitone riprende la carriera politica. L'omosessualità, ma più in generale il libertinismo, era una faccenda da classi sociali elevate. I popolani che dovevano sbarcare il lunario non potevano avere troppi grilli per la testa, anche se poi non era sempre necessariamente così, come dimostrerà la vicenda della Fornarina, una delle fidanzate ufficiali di Lord Byron a Venezia, nel 1818, così soprannominata perché moglie di un fornaio, quindi non certo un'aristocratica. Comunque essere patrizi, e non di secondo piano, come Alvise Sebastiano Mocenigo, aiutava. Questi, alla morte di Paolo Renier, il penultimo doge, decide di candidarsi alla successione. Da Verona, dove ricopre la carica di podestà, mobilita gli amici veneziani, incaricati da fargli campagna elettorale. Essere eletti doge era una faccenda seria e richiedeva un notevole impegno sia di tempo, sia di denaro.
Non appena si diffonde la voce che Mocenigo aspira alla massima carica della repubblica, cominciano le ironie e le composizioni sarcastiche. «In sta repubblica nostra santa e pura/ se vederà un dose che va contro natura» riferisce un informatore agli Inquisitori di stato. «E esposto resta alle ambiziose brame/ l'augusto trono dopo un doge infame» verseggia un altro. Come detto, la repubblica, non avrà un doge infame, ne avrà invece uno fifone, e come sia andata con chi ha prevalso nella fiducia dei 41 grandi elettori, ovvero Ludovico Manin, si sa. Così oggi possiamo lambiccarci domandandoci: «Cosa sarebbe successo se...». Chissà.
Alessandro Marzo Magno
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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