L'INTERVISTA
«Per fare entrare il nuovo tornio hanno dovuto aprire il tetto

Lunedì 17 Febbraio 2020
L'INTERVISTA
«Per fare entrare il nuovo tornio hanno dovuto aprire il tetto che era in lamiera ondulata e calarlo con la gru. Avevamo firmato un pacco di cambiali alto così, spendendo in una volta sola più di quanto papà aveva speso nella sua vita di imprenditore. Quando arrivò la macchina a Pernumia, il primo aprile 1986, nostro padre Antonio era a pranzo, perché lui a mezzogiorno e mezzo immancabilmente sedeva a tavola. Poi venne a vedere: Ma siete sicuri che quello sia un tornio? Non so, co' tutti i schei che xè costà!. Ma era la nostra rivoluzione, un tornio a controllo numerico. E per metterlo in funzione mio fratello Pietro rischiò di rimetterci il matrimonio: dopo una settimana non era ancora partito per il viaggio di nozze a Palma di Maiorca, una mattina arrivò la sposina con la valigia Era anche la prima volta che prendeva l'aereo. Il tornio ha prodotto il primo minuscolo pezzo di precisione e Pietro è volato via».
Da allora l'officina dei Betto ha fatto strada. Oggi è un complesso con 880 dipendenti e un fatturato di 110 milioni di euro, tre stabilimenti a Monselice, una fabbrica a Ceregnano nella Bassa, una partecipata a Brescia, una fonderia a Reggio Emilia. Meccanica di precisione, 30 milioni di pezzi all'anno. Direttamente o indirettamente hanno tra i clienti: la Ferrari, la Porsche, Volkswagen, Maserati, Bmw, Jaguar, Mercedes. E per le moto: Aprilia, Piaggio, Bmw, Ducati.
Al comando i quattro fratelli Betto, tutti di Pernumia: Massimo, 66 anni; Stefano, 64; Pietro, 60; Stefania, 53. Massimo è il presidente, gli altri siedono nel consiglio d'amministrazione e occupano i posti chiave dell'azienda. Ceregnano è sulla strada tra Rovigo e Adria. Nel 1951 l'alluvione coprì tutto, è piana dove da un tetto basso vedi attorno per molti chilometri. Quella volta si vedeva solo acqua uscita da fiumi e canali. Un contadino in un'alba livida scorse un grande Cristo in legno che galleggiava. Non si trovò mai da quale chiesa la furia dell'acqua lo avesse strappato alla croce, è rimasto in paese col nome di Cristo alluvionato.
La fabbrica dei Betto, la TMB, era la ex Grimeca, su un'area di 400 mila metri quadrati, metà coperti. In mezzo ci passa la strada statale, ci sono due sottopassi a collegare una parte all'altra dello stabilimento. Una volta c'era quasi sempre la nebbia quando la sirena chiamava al lavoro e quando suonava la fine dei turni. I Betto nel 2010 hanno salvato la vecchia fabbrica che aveva vissuto anni di gloria con le due ruote, aveva avuto anche 1600 dipendenti. «Quando siamo arrivati per la prima volta, si avvertiva uno stato d'ansia dal silenzio che c'era per il poco lavoro e i tanti impianti fermi. C'era un capannone lungo mezzo chilometri pieno di macchinari che non lavoravano», racconta Massimo Betto.
Quando nasce la vostra impresa?
«Nei primi Anni '60 con papà Antonio che, uscito dall'agricoltura, era andato a lavorare nell'industria a Padova, tutti i giorni in bicicletta da Pernumia a Padova. Per conto suo aveva incominciato a fare lavori di finitura per un'impresa padovana della quale era socio il cognato: prodotti di precisione, valvole di sicurezza per il gas. Dopo qualche anno si è messo in proprio con l'aiuto della moglie Maria che era il cuore dell'azienda, si occupava dell'amministrazione. Mamma è morta giovanissima, a 42 anni. Papà si è trovato solo a gestire, era una piccola officina a Pernumia dove c'erano i vecchi depositi del marchese Bonaccorsi, ma dopo un poco è stato necessario trovare nuovi spazi».
Voi figli come siete entrati nella fabbrica?
«Uno dopo l'altro al termine degli studi. Ma c'eravamo già di fatto. La nostra infanzia è stata lavorativa, il vero week-end per noi incominciava la domenica a pranzo quando erano finiti tutti i lavori. Ci ha fatto crescere la sorella di papà zia Teresa, anche lei vedova. Nostro padre non aveva una grande vita sociale, l'officina era tutto. Aveva come motto: Alza e cammina via; per lui non bisognava mai indugiare. Poi nel 1985 ci siamo spostati a Monselice dove la famiglia Gasparini, che fabbricava sedie, ci ha affittato lo stabilimento. Questo spazio è stato un elemento portante del nostro successo perché abbiamo potuto inserire le nuove tecnologie di produzione, macchine computerizzate, e poter così servire aziende con aspettative più importanti. In quel momento è avvenuto il cambio generazionale, papà si è ritirato ma è rimasto in azienda fino al 2001 quando è mancato. Abbiamo incominciato a lavorare per settori nuovi, per le motociclette, era il momento del boom degli scooter. Il nostro cliente di riferimento era Minarelli che allestiva motori per Aprilia, Yamaka, Malaguti. Siamo anche entrati con commesse importanti per la Rotax, un costruttore austriaco di motori per varie applicazioni, dalla nautica agli scooter Bmw e ultimamente per i Quad. Siamo andati anche il Canada con prodotti destinati al mercato americano e abbiamo dovuto allargarci ancora, questa volta in Emilia».
Come siete finiti a Ceregnano?
«Nel 2010, quando stava finendo la crisi che prima aveva coinvolto in un rallentamento anche noi e i nostri 270 dipendenti costringendoci alla cassa integrazione a rotazione. Fortunatamente nei tempi buoni avevamo accantonato risorse per un piano di investimento che ci è servito per salvare i posti di lavoro e già nel 2009 avevamo recuperato il volume degli affari antecrisi. Ci occorreva una nuova fonderia, ci chiama la Grimeca che lavorava esclusivamente nel mondo delle due ruote, e dopo anni di vendite impressionanti ora tentava l'operazione di salvataggio. Abbiamo trovato la fonderia giusta per noi, ho detto ai miei fratelli. C'era tutto, macchine adatte e spazi giusti. Eravamo vicini all'accordo, quando si viene a sapere che l'azienda all'insaputa di tutti aveva chiesto la messa in liquidazione in tribunale. Ci siamo presentati all'asta e con più di 30 milioni abbiamo acquistato, l'accordo sindacale col ministero prevedeva il salvataggio della metà dei posti di lavoro che, nel frattempo, si erano molto ridotti. Nel 2011 di colpo siamo diventati una società che aveva oltre 500 dipendenti, più che raddoppiati dalla sera alla mattina. Da quel giorno ho ripreso a fumare, avevo promesso di smettere alla morte di papà. Ci siamo trovati spaesati, ci si perdeva nell'immensità di questa azienda che aveva una foresteria, tre mense, gli autobus per gli spostamenti interni. Di colpo un singolo cliente ci ha affidato 23 progetti e siamo partiti subito alla disperata. In tre anni abbiamo triplicato il volume d'affari».
È stato difficile il passaggio nella Bassa?
«Noi Ceregnano non sapevamo quasi neanche dove era. Non ci conosceva nessuno fuori da Monselice, gli scettici dicevano: Dureranno un anno, non sanno niente di questo posto. C'era aspettativa ma non eravamo credibili. Ci siamo da dieci anni, ora siamo più che credibili. Eh, già/ sembrava la fine del mondo/ ma sono ancora qua/ ci vuole abilità come canta Vasco Rossi».
I fratelli seguono le loro passioni: Massimo è collezionista d'arte, acquista anche per la famiglia: «Ho un bozzetto di Tiepolo scoperto in una cantina, un olio di Le Courbusier. Gli artisti del Novecento li ho quasi tutti». Stefano ha creato un museo con i pezzi pregiati in alluminio, dalle pompe dell'olio della Ferrari alle moto campioni del mondo. Pietro ha la passione della pesca e come hobby personale ha l'Alutecna, la piccola fabbrica di famiglia per mulinelli e attrezzi sportivi. Da bambino andava a pescare nel canale di Pernumia, di notte perché quello era l'unico tempo disponibile; ora va alle Maldive e cattura prede come pescispada.
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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