L'INTERVISTA
«E' finito tutto in quattro anni. Bruciato. Dopo aver girato

Lunedì 9 Dicembre 2019
L'INTERVISTA
«E' finito tutto in quattro anni. Bruciato. Dopo aver girato il mondo in concerti anche con i Led Zeppelin, ti accorgi all'improvviso che non ti chiama più nessuno. Telefono a mia madre: Arrivo in aereo a Venezia a mezzanotte e vengo a casa. Lei si è messa a piangere. In aeroporto ho trovato il taxi che mamma mi aveva mandato da Conegliano. Il mondo della musica ti porta in alto, credi sbagliando di essere qualcuno, invece non sei nessuno».
Questa è la storia delle tre vite di Mario Potocnik, 59 anni, di Pieve di Cadore: la prima vita da Mario l'enologo, la seconda da cantante con nome d'arte di Reeds, la terza di nuovo da Mario come editore enogastronomico. Spesso lo si rivede in televisione, a Techetechete è immancabile: è il ragazzone alto e biondo che canta a Discoring o al Festivalbar. Allora, erano i primi anni '80, vendeva milioni di copie in tutto il mondo: 12 dischi, con Polydor e Rca, tra il 1984 e il 1988, successi internazionali come Imagination e In our eyes, rigorosamente cantati in inglese. Lo spacciavano per straniero, quello della dance venuta dal freddo, come la famosa spia dietro il Muro. «Era bastato cambiarmi il nome, il cognome funzionava già da solo. L'ufficio stampa raccontava quello che voleva e lo condiva con un po' di gossip che nessuno controllava». In quegli anni lo chiamarono addirittura al Festival di Sanremo come ospite straniero, mescolato ai Duran Duran e a Bon Jovi.
Quando Mario è diventato Reeds?
«I miei genitori erano veneziani, mio padre era un pittore. Sono nato a casa a dicembre sotto due metri di neve, eravamo rimasti isolati. Credo che la musica abbia da sempre fatto parte della mia vita: suonavo già quando frequentavo la scuola Enologica a Conegliano, a 14 anni facevamo musica nei garage. Ci chiamavamo Red Byron, c'era anche mio fratello Michele che oggi è architetto. Mi ero appena diplomato enologo, quando ho partecipato senza vincere a un concorso a Conegliano, ma uno dei produttori mi invita ad andare a Milano e chiamarlo. La mia carriera di cantante è incominciata così. In quel momento il dance italiano andava forte, sulla spinta dei Gazebo. La chiamavano Pop Dance, è stata esportata in tutto il mondo, cantavamo soltanto in inglese. Abbiamo portato la nostra musica in Cina e Giappone e in Argentina; hanno cantato le mie canzoni in giapponese, non lo sapevo nemmeno io. Quando si è esaurito il filone dance italiano, non ci voleva più nessuno. Quel genere che aveva fondato il ballo nelle discoteche era superato, erano arrivati i Dj».
Come è stata l'esperienza sul palcoscenico?
«L'esperienza discografica ti appaga, ti porta tante cose, ma devi stare attento a come la vivi. Erano tempi diversi: partivamo in macchina e andavamo a Rimini, con la cappotta dell'auto aperta, e rientravamo la sera stessa dopo il concerto. Ho goduto di un periodo fortunato, ho conosciuto tante persone, ho fatto tour con i Led Zeppellin e in certi paesi, come la Spagna, eravamo quasi alla pari: là sono stato in classifica per otto mesi di fila! La gente mi fermava per strada in Spagna, nei Paesi Bassi, nei paesi Scandinavi e in Sud America dove ero popolare. È difficile trovare equilibrio, il palcoscenico ti ruba l'anima, vorresti continuare a viverlo Ho visto tanti colleghi entrare in depressione, altri scivolare in mondi dai quali non sono più venuti fuori, altri sparire. Con i Righeira ci siamo trovati al Maurizio Costanzo Show, io presentavo Imagination, loro Vamos alla playa, sono spariti, eppure le loro canzoni si cantano ancora. Certo c'era chi ha fatto fortuna: in Francia frequentavo Patrick Hernandez che ha venduto 25 milioni di dischi, si era comprato un jet privato e un pezzo di un'isola nella quale andare ad abitare. Di quelli di allora è rimasto Raf che prima cantava in inglese, poi in italiano. È cresciuto, ha avuto anche un buon produttore toscano, lo stesso di Masini. Ma per andare avanti devi fare belle canzoni. Puoi avere successo una volta, puoi indovinare il tormentone che cantano tutti, ma poi se non hai buone canzoni sparisci».
Chi rivede dei tanti conosciuti allora?
«Ne ho conosciuto moltissimi. Con Eros Ramazzotti abbiamo cominciato nello stesso periodo, all'inizio ci incontravamo spesso a Milano, poi ci siamo persi di vista. Jovanotti faceva il dj, veniva ai miei concerti, gli ho presentato Claudio Cecchetto, uno che ha dato molto al mondo musicale italiano, anche con intelligenza. Dovevo passare alla sua scuderia, ma ero biondo, capelli lunghi, e lui aveva già Sandy Marton. Con Claudio siamo rimasti amici. Ho conosciuto bene i Duran Duran, gli Spandau Ballet, oltre ai Led Zeppelin ed in particolare il cantante Robert Plant. È più facile fare amicizia con artisti stranieri che italiani, trovi più umiltà. Per tre anni ho partecipato al Festivalbar, incontravi tutte le sere i colleghi. Il mio esordio in tv è stato su Rai Uno, non sapevo niente, la prima volta che ho partecipato a Discoring mi hanno detto: Hai cinque telecamere, arrangiati!. Ho cantato come un ebete, guardavo nelle telecamere, fisso. Poi ho capito che non era fondamentale».
Cosa è accaduto quando ha smesso di cantare?
«Non ho mai smesso di cantare. Anzi, la mia formazione artistica è cresciuta quando ho ripreso dopo anni. Ho imparato a cantare con il cuore, in un periodo di vita più tranquillo, più sereno. Ogni anno ho prodotto decine di canzoni e ho più di 140 canzoni registrate alla Siae. Me le scrivo, le compongo, le suono e vado in studio di registrazione. Oggi è più facile lavorare, puoi farlo anche in casa, vai nello studio di registrazione con un prodotto già quasi pronto. Una volta ci volevano mesi».
Quando è incominciata la terza vita di Mario?
«Ero appassionato di vini, di buoni piatti, di belle donne. Viaggiavo molto, facevo tante serate, e avevo l'abitudine di segnarmi il ristorante, il piatto, il vino. Avevo centinaia di indirizzi italiani, così alla fine mi sono trovato un'agenda dettagliata: la spesa, il piatto da scegliere, il vino da abbinare. Così un giorno questo è diventato il mio lavoro: nel 1994 ho iniziato a fare la prima guida, si chiamava Mangiar Bene e dalla ventesima edizione è Best Gourmet. Intanto questa ricerca si è trasformata in una continua voglia di capire e conoscere. La scuola enologica di Conegliano mi ha dato una formazione importante, non è stato difficile appassionarsi anche al mondo del cibo. Così è nata la mia guida: sono partito dalla provincia di Treviso, poi ho aggiunto Belluno, Venezia, le altre province e l'intero Friuli-Venezia Giulia, infine la guida si è estesa alla macroregione dell'Alpe Adria aggiungendo Istria, Slovenia e parte dell'Austria. Partivo in auto, allora non c'era questo movimento di Internet: dovevi viaggiare, fermarti a parlare, scoprivi che c'erano tante cose da raccontare. Questo è un territorio che ha una storia incredibile, dove si fondono culture diverse che lo rendono unico al mondo. Faccio l'editore, nel 2015 il libro su Conegliano, Con il gusto in bocca e gli occhi all'insù è stato premiato come il miglior libro italiano di cucina e anche in Cina come miglior libro al mondo».
Un piatto, un vino e una musica?
«Ogni piatto e ogni vino hanno la loro musica. Farò un programma televisivo C'è musica in cucina che può dire quanto la musica può fare parte della tavola. Come piatto vado verso Strauss e un valzer: gli gnocchi con le susine e con lo zucchero sopra flambè. E per il vino un bel rosso macerato di Josko Gravner, il padre dei vini naturali nel mondo. Qui siamo nel rock classico.
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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